«Questa è una mostra di convergenze non parallele e di parallele non convergenti. È la storia della mia infanzia, della mia adolescenza e della mia “educazione sentimentale”. Sono stato cresciuto da dei genitori che mi portavano alle mostre di arte povera e da delle nonne che mi facevano vedere i festival di Sanremo, ho cercato di fondere in questa mostra entrambe le valenze» la racconta così Francesco Vezzoli la sua mostra “TV 70: Francesco Vezzoli guarda la Rai ” ospitata fino al 24 settembre a Milano negli spazi della Fondazione Prada. Il percorso espositivo è in effetti un vero e proprio palinsesto crossmediale che, fra filmati tv d’epoca estratti dalle Teche Rai e opere d’arte, racconta gli anni 70, fra immaginario collettivo, rivoluzioni sociali, politica e ovviamente programmi tv. Vezzoli infatti guarda alla televisione pubblica di quegli anni come a un prodotto di qualità caratterizzato da una vera e propria forza di cambiamento sociale in un Paese appena uscito dalla radicalità degli anni Sessanta e pronto a scivolare, travolto dal diluvio commerciale che affogherà il servizio pubblico, nell’edonismo degli anni Ottanta e delle tv private dell'era Berlusconi. È proprio durante gli anni 70 infatti che la Rai, traghettata nel nuovo decennio dal direttore generale Ettore Bernabei, inizia a ripensare il ruolo pedagogico che fin ora aveva scelto di incarnare e punta su prodotti culturalmente prestigiosi frutto delle collaborazioni con registi come Bernardo Bertolucci, Federico Fellini, Paolo e Vittorio Taviani. Ma è anche una televisione che, seppur divisa tra austerità formale e carica innovativa, si afferma ufficialmente come medium indipendente e caratterizzato da un proprio linguaggio specifico. Un linguaggio che via via cerca di ampliare i punti di vista, dare voce a prospettive plurali e istanze autonome, anticipando quel modo di fare televisione che poi sarà messo in campo anche dalla tv commerciale del decennio seguente. “TV 70” racconta tutto questo e lo fa attraverso un percorso che esalta con associazioni visive e semantiche l’incontro tra la dimensione spaziale e quella temporale vera propria innovazione del medium televisivo. È così che tra luce e buio, corridoi e spazi aperti, le tradizionali condizioni espositive di un museo si fondono con il passaggio sullo schermo dell’immagine in movimento. La successione di documenti immateriali provenienti dagli archivi delle Teche Rai accostati alla materialità di dipinti, sculture e installazioni - selezionati con il supporto curatoriale di Cristiana Perrella e la consulenza scientifica di Massimo Bernardini e Marco Senaldi - si articola in tre sezioni distinte e affronta le relazioni della televisione pubblica italiana con l’arte, la politica e l’intrattenimento. La prima sezione “Arte e Televisione” è introdotta dai Paesaggi TV (1970) di Mario Schifano e riflette sull’impiego artistico del mezzo televisivo. Programmi come “Io e…" e “Come nasce un’opera d’arte” rendono artisti come Alighiero Boetti, Alberto Burri, Giorgio de Chirico, Renato Guttuso e Michelangelo Pistoletto, intervistati o ripresi mentre realizzano i propri lavori diventano così personaggi pubblici, protagonisti della cultura pop-olare televisiva.   La seconda sezione mette in relazione “Politica e Televisione” evidenziando la natura frammentaria e ossessiva dei messaggi politici degli anni Settanta con gli estratti dei telegiornali dell’epoca che testimoniano il clima di tensione degli anni di piombo. Fra le opere esposte la serie di 12 collage su carta “Non capiterà mai più” (1969) di Nanni Balestrini che manipola e demolisce i linguaggi di massa e il video di Ketty La Rocca “Le Mani” (1973) che declina un nuovo vocabolario al femminile, altro grande tema politico di quegli anni. È proprio tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta infatti che l’artista Carla Accardi mette in discussione l’idea della pittura come prerogativa maschile ed elabora un linguaggio anti-istituzionale che cancella il confine tra privato e pubblico, intimità e condivisione. In “Tv 70” le opere di Accardi vengono così accostate a programmi televisivi, come “Processo per Stupro” e “Si dice donna”, oltre che ai filmati delle manifestazioni femministe. La terza e ultima parte è dedicata a “Intrattenimento e Televisione” e si apre con l’installazione di Giosetta Fioroni “La spia ottica” (1968) nella quale il corpo della donna è presentato come oggetto dello sguardo e del desiderio dell’altro e contemporaneamente come soggetto attivo e cosciente. Uno dei focus centrali della sezione è infatti proprio il confine tra liberazione sessuale e consumo del corpo femminile verso cui si sbilancerà la tv privata e berlusconiana del decennio successivo. La mostra si conclude con un montaggio realizzato e ideato da Francesco Vezzoli nel quale l’artista cuce insieme spezzoni di programmi, immagini e film che raccontano la sua storia personale. Mettendo insieme le icone che hanno segnato la sua infanzia e adolescenza ad altre immagini televisive, l’artista riesce a unire personale e pubblico, sottolineando come le immagini, in questo caso televisive, riescano a trasformare la memoria intima e personale in una narrazione condivisa.

«Questa è una mostra di convergenze non parallele e di parallele non convergenti. È la storia della mia infanzia, della mia adolescenza e della mia “educazione sentimentale”. Sono stato cresciuto da dei genitori che mi portavano alle mostre di arte povera e da delle nonne che mi facevano vedere i festival di Sanremo, ho cercato di fondere in questa mostra entrambe le valenze» la racconta così Francesco Vezzoli la sua mostra “TV 70: Francesco Vezzoli guarda la Rai ” ospitata fino al 24 settembre a Milano negli spazi della Fondazione Prada.
Il percorso espositivo è in effetti un vero e proprio palinsesto crossmediale che, fra filmati tv d’epoca estratti dalle Teche Rai e opere d’arte, racconta gli anni 70, fra immaginario collettivo, rivoluzioni sociali, politica e ovviamente programmi tv. Vezzoli infatti guarda alla televisione pubblica di quegli anni come a un prodotto di qualità caratterizzato da una vera e propria forza di cambiamento sociale in un Paese appena uscito dalla radicalità degli anni Sessanta e pronto a scivolare, travolto dal diluvio commerciale che affogherà il servizio pubblico, nell’edonismo degli anni Ottanta e delle tv private dell’era Berlusconi.

È proprio durante gli anni 70 infatti che la Rai, traghettata nel nuovo decennio dal direttore generale Ettore Bernabei, inizia a ripensare il ruolo pedagogico che fin ora aveva scelto di incarnare e punta su prodotti culturalmente prestigiosi frutto delle collaborazioni con registi come Bernardo Bertolucci, Federico Fellini, Paolo e Vittorio Taviani. Ma è anche una televisione che, seppur divisa tra austerità formale e carica innovativa, si afferma ufficialmente come medium indipendente e caratterizzato da un proprio linguaggio specifico. Un linguaggio che via via cerca di ampliare i punti di vista, dare voce a prospettive plurali e istanze autonome, anticipando quel modo di fare televisione che poi sarà messo in campo anche dalla tv commerciale del decennio seguente.

“TV 70” racconta tutto questo e lo fa attraverso un percorso che esalta con associazioni visive e semantiche l’incontro tra la dimensione spaziale e quella temporale vera propria innovazione del medium televisivo. È così che tra luce e buio, corridoi e spazi aperti, le tradizionali condizioni espositive di un museo si fondono con il passaggio sullo schermo dell’immagine in movimento. La successione di documenti immateriali provenienti dagli archivi delle Teche Rai accostati alla materialità di dipinti, sculture e installazioni – selezionati con il supporto curatoriale di Cristiana Perrella e la consulenza scientifica di Massimo Bernardini e Marco Senaldi – si articola in tre sezioni distinte e affronta le relazioni della televisione pubblica italiana con l’arte, la politica e l’intrattenimento.

La prima sezione “Arte e Televisione” è introdotta dai Paesaggi TV (1970) di Mario Schifano e riflette sull’impiego artistico del mezzo televisivo. Programmi come “Io e…” e “Come nasce un’opera d’arte” rendono artisti come Alighiero Boetti, Alberto Burri, Giorgio de Chirico, Renato Guttuso e Michelangelo Pistoletto, intervistati o ripresi mentre realizzano i propri lavori diventano così personaggi pubblici, protagonisti della cultura pop-olare televisiva.

 

La seconda sezione mette in relazione “Politica e Televisione” evidenziando la natura frammentaria e ossessiva dei messaggi politici degli anni Settanta con gli estratti dei telegiornali dell’epoca che testimoniano il clima di tensione degli anni di piombo. Fra le opere esposte la serie di 12 collage su carta “Non capiterà mai più” (1969) di Nanni Balestrini che manipola e demolisce i linguaggi di massa e il video di Ketty La Rocca “Le Mani” (1973) che declina un nuovo vocabolario al femminile, altro grande tema politico di quegli anni. È proprio tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta infatti che l’artista Carla Accardi mette in discussione l’idea della pittura come prerogativa maschile ed elabora un linguaggio anti-istituzionale che cancella il confine tra privato e pubblico, intimità e condivisione. In “Tv 70” le opere di Accardi vengono così accostate a programmi televisivi, come “Processo per Stupro” e “Si dice donna”, oltre che ai filmati delle manifestazioni femministe.

La terza e ultima parte è dedicata a “Intrattenimento e Televisione” e si apre con l’installazione di Giosetta Fioroni “La spia ottica” (1968) nella quale il corpo della donna è presentato come oggetto dello sguardo e del desiderio dell’altro e contemporaneamente come soggetto attivo e cosciente. Uno dei focus centrali della sezione è infatti proprio il confine tra liberazione sessuale e consumo del corpo femminile verso cui si sbilancerà la tv privata e berlusconiana del decennio successivo.
La mostra si conclude con un montaggio realizzato e ideato da Francesco Vezzoli nel quale l’artista cuce insieme spezzoni di programmi, immagini e film che raccontano la sua storia personale. Mettendo insieme le icone che hanno segnato la sua infanzia e adolescenza ad altre immagini televisive, l’artista riesce a unire personale e pubblico, sottolineando come le immagini, in questo caso televisive, riescano a trasformare la memoria intima e personale in una narrazione condivisa.