La società è cambiata e di questo la Corte sembrerebbe prenderne atto. Affermare il contrario significa negare le istanze di modernizzazione e la trasformazione possibile degli uomini e delle donne, che a volte passa anche attraverso una separazione fatta bene.

La società è cambiata e anche in questo caso è la magistratura che se ne accorge prima della classe politica che dovrebbe adeguare le leggi ai tempi mutati. Non vale più il tenore di vita vissuto durante il matrimonio, per cui l’ex coniuge era obbligato ad assegni di mantenimento stratosferici, ma solo la garanzia dell’autosufficienza. La Cassazione si è pronunciata in questo senso in merito al contenzioso tra l’ex ministro Vittorio Grilli e la moglie. Prevarrebbe dunque l’elemento affettivo rispetto a quello economico. Su questo tema pubblichiamo  l’interpretazione dell’avvocato Simona Ghionzoli. 

 

È importante e segna una linea di discontinuità netta negli orientamenti giurisprudenziali inerenti al diritto di famiglia la sentenza della Cassazione n. 11504/2017.
Quella della Suprema Corte è una decisione  degna di nota per il coraggio interpretativo, che restituisce forza alla legge sul divorzio e alla reale portata innovativa, che ha avuto sulla società italiana. La legge sul divorzio 1° dicembre 1979 n. 898 (“Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio”), fortemente voluta da larghi settori della società civile e osteggiata per motivi diversi dagli ambienti politici di destra e di sinistra, ha sancito il diritto al divorzio, ma di fatto si è vista negare per anni la piena e reale applicazione.

Ciò a causa della sistematica derubricazione del suo reale significato, sul piano culturale, a questione meramente economica, riservandone il terreno di applicazione e di accessibilità troppo spesso alle classi più colte ed agiate.
Certo, occorrerà sicuramente leggere la sentenza per esteso con le motivazioni per comprenderne pienamente la reale portata innovativa e i principi in essa affermati. Intanto però possiamo solo ragionevolmente augurarci che questa decisione non porterà benefici solo per i più facoltosi, come qualcuno dei frettolosi commentatori si è già sbilanciato nell’affermare, ma sia più illuminata di quanto si possa pensare.
L’assegno di mantenimento, infatti, va corrisposto al coniuge solo quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati (considerati tra gli altri anche quelli ricavabili da immobili in proprietà o di cui comunque ha la disponibilità aggiunge la Suprema Corte, richiamando con tale affermazione anche il diritto di abitazione spettante al coniuge assegnatario della casa coniugale), o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive, cioè a dire quando non può lavorare per ragioni a seguito di situazioni invalidanti sul piano fisico e psichico, regolarmente accertate quindi, o per le condizioni offerte dal mercato del lavoro.

Già con una Sentenza innovativa nei mesi scorsi la Corte di Cassazione aveva avuto modo di precisare cosa doveva intendersi per non autosufficienza e incapacità a svolgere attività lavorative fuori dall’ambito domestico.
Secondo un indirizzo affermatosi per anni, inoltre, la giurisprudenza aveva ritenuto, che l’adeguatezza dei mezzi doveva valutarsi non in assoluto cioè con riferimento ad uno standard medio di vita dignitosa, ma con riguardo al tenore di vita goduto mentre dura il matrimonio, in tal modo svuotando l’innovazione legislativa (secondo autorevoli pareri della dottrina).
Con la sentenza in esame e sul solco di un percorso già faticosamente tracciato negli ultimi mesi, la Suprema Corte non solo disconosce espressamente il principio sinora affermato, ma sembra voler dire che l’assegno corrisposto aiuterà certamente il coniuge più debole, come è ragionevole che sia, a vivere dignitosamente ed entro parametri di ragionevole benessere economico, ma soprattutto dovrà aiutarlo ad affrancarsi e a ricostruire un percorso di vita magari più autonomo e magari anche migliore di quello precedente.
Il diritto all’assegno insomma non può diventare strumento da utilizzare a fini vendicativi e vessatori anziché riparatori, o peggio di legittimazione di arricchimento senza causa, a voler essere generosi nel lessico.

Non possono sommariamente derubricarsi ad affari economici, situazioni personali e che interessano la sfera emotiva ed affettiva. Esse meritano un esame più approfondito e soprattutto un’assunzione di responsabilità sotto il piano personale, elemento, tra l’altro, quello della responsabilità oltre all’indipendenza e all’autosufficienza, che sembrerebbe stare al centro della motivazione della decisione in argomento.

L’assegno dovrà quindi corrispondere a un effettivo stato di bisogno, sul quale comunque andranno valutate caso per caso, le ragioni che lo hanno causato.

Se in linea di principio insomma è corretto riconoscere agli altri, soprattutto in un rapporto di coppia, il contributo dato all’altro per la realizzazione professionale e umana e che per tale motivo non è mai da considerarsi conquista del singolo, è anche vero che quando un rapporto finisce occorre la maturità e l’onestà di ammetterne ed esaminarne (magari fuori dalle aule del Tribunale) le ragioni, anche quelle più profonde e scomode, che hanno portato a sancirne la fine, recuperando il senso e il tenore del significato del termine “separazione”.

La Sentenza, pertanto, aprirebbe a scenari interpretativi assolutamente nuovi, che non toccano solo la materia economica, ma che sembrerebbero voler esplorare altri piani, come quelli di un contributo al recupero della sanità sul piano psichico, conseguente a una separazione, sino ad oggi trascurati e volutamente negati.

La società è cambiata (e di questo la Corte sembrerebbe prenderne atto).
Affermare il contrario significa negare le istanze di modernizzazione e la trasformazione possibile degli uomini e delle donne, che a volte passa anche attraverso una separazione fatta bene.