Fabbricarsi ramponi con pezzi di ferro, sotto la barriera di Melilla; e poi, il grande salto. Lanciarsi sulla rete affilata, tra cani e radar. Aprirsi un varco, in un incubo da Orwell. Cosa significa un confine per quelli dall’altra parte? Lo racconta lo stupefacente documentario “Les Sauteurs” di Abou Bakar Sidibé, Moritz Siebert e Estephan Wagner, girato per la prima volta da un migrante sotto la Fortezza; metafora di tutti gli uomini oggi schiacciati dai confini, dal Messico all’Evros.
Il muro deporta indietro, dispera, uccide e ferisce. Penso a Manzoor e Shihad, giovani pachistani accampati nelle baracche in Serbia. Hanno provato decine di volte il border crossing. Anche se ripetutamente pestati dalle polizie magiare e croate, morsi dai cani, persino l gelo, stasera ancora ci riproveranno. Su quel confine ungherese oggi i rifugiati sono rinchiusi in container, mentre l’Australia usa isole come prigioni-lager. Eterne foto di mani di bimbi tra la rete.
E poi quel mostruoso limbo in cui sono bloccati migliaia di rifugiati, dopo la chiusura della rotta balcanica, senza prospettive, separati dagli affetti. La mente si ammala. Si perdono i sogni sotto i muri. Come il trentenne maliano, impiccatosi tra i binari della stazione di Milano, a pochi metri del centro di aiuto sociale del comune. Centri di accoglienza, confini anche loro.
Muro-negazione, muro-depressione.
Il confine è la materializzazione della negazione che si aggira nel mondo, contro i migranti. 24.600 bambini (Unicef) tra cui la metà non accompagnati, sono abbandonati nei Balcani sotto i muri dell’Europa, senza scuola né cure mediche. La frontiera chiusa ti costringe ad una brutale sopravvivenza, alla jungle. Ghetti e baraccopoli, Calais, Moria, Baobab. Sono persino sotto casa, i nessi dell’apartheid invisibile che ha ammazzato Nian Maguette nel cuore di Roma. Normalmente quella stessa pulsione ammazza uomini neri, lontano dai nostri occhi, tra Sabratha e Lampedusa, nell’Egeo o nel deserto; ma intanto un po’ della nostra fantasia e società si sgretola, è scomoda questa fossa comune sotto i nostri marciapiedi.
Il confine può essere sempre reinventato. Paesi dichiarati “sicuri” per i rimpatri. Afghani deportati sotto le bombe, sudanesi espulsi. Si possono esternalizzare i confini dell’Ue spostandoli sempre più in là nel cuore dell’Africa, delegare a milizie il lavoro sporco; farli sparire preventivamente purché non arrivino qua tra noi. I confini nostri puzzano di detenzioni, stupri e respingimenti, di motovedette vendute alle guardie costiere libici. Chi sa se non li annegano. Corpi riaffiorano a volte sulle spiagge libiche, altre volte vanno a fondo, non conosceremo mai loro nomi*. E’ solo grazie alle navi delle Ong umanitarie, i nostri “occhi” sul mare, che si può svelare l’eliminazione in corso.
I confini li riconosci sulla pelle, dove possono essere marchiati a vita: ferite da proiettili, da manganelli, morsi da cane, membra rotte, segni di torture sul petto. Come in un archivio vivente i corpi degli uomini in movimento raccontano la nostra violenza xenofoba.
Ma i confini producono anche resistenze inedite, dalla valle Roya a Idomeni, cittadini si inventono cuochi, volontari, passeurs: rischiando l’arresto per rifiutare il disumano e ricreare l’uguaglianza. Alla mostra Cross the Streets al Macro, Mosa One mi spiega il significato del suo murales: “La mano di Fatima solleva il filo spinato, per fare passare una bimba siriana, così testimonio di quello che succede nel mondo”. Mosa One ha 19 anni. Per tanti come lui, per fortuna, i confini non significano nulla.
*Dall’inizio del 2017, 1.300 persone sono scomparse o hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Europa (fonte Unhcr).