Le lobby delle fonti energetiche fossili, quelle sotto accusa per essere le principali fonti del surriscaldamento globale causato dalle attività umane, dovranno dichiarare il loro conflitto d'interessi quando partecipano ai colloqui sul clima delle Nazioni Unite. La piccola ma importante conquista sulla strada della “apertura e trasparenza” delle sedi diplomatiche e in particolare della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (Unfccc), è merito delle pressioni dei Paesi cosiddetti emergenti, che nei negoziati tecnici in corso a Bonn hanno superato le resistenze delle maggiori economie, inclusi Stati Uniti, Unione europea, Norvegia e Australia. Ecuador e Venezuela, infatti, a nome del gruppo dei Paesi emergenti, avevano posto al questione morale e chiesto con forza l'introduzione di una policy sul conflitto d'interessi in virtù della quale i gruppi con lo status di osservatori devono dichiarare la loro condizione di conflitto d'interessi. Tra questi gruppi che hanno la possibilità di partecipare a riunioni e conferenze facendo lobby contro la riduzione delle emissioni di gas serra, figurano le Big oil, da ExxonMobil a Shell, Bp e Bhp. L'Unfccc raccoglierà dunque le osservazioni di qualunque stakeholder, anche singole persone vittime degli effetti o delle politiche sul climate change, in merito ai possibili conflitti d'interesse e alle modalità per contrastarli e la discussione andrà avanti per un anno. Per capire meglio di cosa stiamo parlando basta osservare la reazione di alcuni lobbisti a margine dei negoziati in corso a Bonn. Uno di questi è Stephen Eule, analista del clima per la Camera di Commercio Usa, che ha lo status di osservatore presso l'Unfccc. Eule, riferisce il Guardian, ha richiamato la necessità di coinvolgere l'industria del carbone (la più inquinante), definendo “irrealisticamente ambiziosi” gli impegni assunti dagli Usa di Obama al summit sul clima di Parigi del 2015 e mostrando approvazione per le misure di Trump che fanno marcia indietro rispetto a tali impegni, perché produrrebbero uno svantaggio competitivo per gli Usa. Un punto di vista come un altro, ma è importante sapere - e ora lo si saprà con più facilità – chi rappresentano i lobbisti come Eule quando intervengono e interloquiscono nelle sedi diplomatiche in cui si discute di come combattere il climate change. La Camera di Commercio Usa rappresentata a Bonn da Eule è finanziata dalla ExxonMobil per le realizzare “campagne pubbliche di informazione” e nel suo consiglio di amministrazioni sono rappresentate alcune delle più grandi imprese energetiche del Paese. Legittimo dunque fare lobby, ma almeno sia palese a sostegno di quali posizioni e interessi lo si fa. Ma c'è già chi chiede di escudere del tutto lealobby delle energie fossili dai negoziati sul clima, come avvenuto per l'industria del tabacco quando si discuteva dei danni del fumo.

Le lobby delle fonti energetiche fossili, quelle sotto accusa per essere le principali fonti del surriscaldamento globale causato dalle attività umane, dovranno dichiarare il loro conflitto d’interessi quando partecipano ai colloqui sul clima delle Nazioni Unite. La piccola ma importante conquista sulla strada della “apertura e trasparenza” delle sedi diplomatiche e in particolare della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (Unfccc), è merito delle pressioni dei Paesi cosiddetti emergenti, che nei negoziati tecnici in corso a Bonn hanno superato le resistenze delle maggiori economie, inclusi Stati Uniti, Unione europea, Norvegia e Australia.

Ecuador e Venezuela, infatti, a nome del gruppo dei Paesi emergenti, avevano posto al questione morale e chiesto con forza l’introduzione di una policy sul conflitto d’interessi in virtù della quale i gruppi con lo status di osservatori devono dichiarare la loro condizione di conflitto d’interessi. Tra questi gruppi che hanno la possibilità di partecipare a riunioni e conferenze facendo lobby contro la riduzione delle emissioni di gas serra, figurano le Big oil, da ExxonMobil a Shell, Bp e Bhp. L’Unfccc raccoglierà dunque le osservazioni di qualunque stakeholder, anche singole persone vittime degli effetti o delle politiche sul climate change, in merito ai possibili conflitti d’interesse e alle modalità per contrastarli e la discussione andrà avanti per un anno.

Per capire meglio di cosa stiamo parlando basta osservare la reazione di alcuni lobbisti a margine dei negoziati in corso a Bonn. Uno di questi è Stephen Eule, analista del clima per la Camera di Commercio Usa, che ha lo status di osservatore presso l’Unfccc. Eule, riferisce il Guardian, ha richiamato la necessità di coinvolgere l’industria del carbone (la più inquinante), definendo “irrealisticamente ambiziosi” gli impegni assunti dagli Usa di Obama al summit sul clima di Parigi del 2015 e mostrando approvazione per le misure di Trump che fanno marcia indietro rispetto a tali impegni, perché produrrebbero uno svantaggio competitivo per gli Usa.

Un punto di vista come un altro, ma è importante sapere – e ora lo si saprà con più facilità – chi rappresentano i lobbisti come Eule quando intervengono e interloquiscono nelle sedi diplomatiche in cui si discute di come combattere il climate change. La Camera di Commercio Usa rappresentata a Bonn da Eule è finanziata dalla ExxonMobil per le realizzare “campagne pubbliche di informazione” e nel suo consiglio di amministrazioni sono rappresentate alcune delle più grandi imprese energetiche del Paese. Legittimo dunque fare lobby, ma almeno sia palese a sostegno di quali posizioni e interessi lo si fa. Ma c’è già chi chiede di escudere del tutto lealobby delle energie fossili dai negoziati sul clima, come avvenuto per l’industria del tabacco quando si discuteva dei danni del fumo.