I media italiani raccontano una realtà parziale, se non del tutto alterata, della Chiesa di papa Francesco. Ecco l’analisi del direttore di Cronache laiche

Il segnale è stato chiaro fin dal 13 marzo 2013. Con quel «Buona notte e buon riposo» Jorge Mario Bergoglio, appena eletto papa con il nome di Francesco, gettava le basi della nuova strategia comunicativa della Santa Sede. Il marchio della Chiesa, ingrigito dagli otto anni di pontificato del rigido teologo tedesco Joseph Ratzinger, doveva essere rilanciato, svecchiato, diffuso sin da subito sfruttando la discontinuità del momento. Papa nuovo, Chiesa nuova. Un messaggio da veicolare il più presto possibile per riconquistare ciò che Benedetto XVI aveva perduto in termini di credibilità e fiducia verso un’istituzione che agonizzava tra gli scandali economici e l’inarrestabile allargarsi in tutto il mondo della piaga della pedofilia clericale.

Ma a chi affidare il messaggio del cambiamento in modo che arrivasse forte e chiaro sia alle orecchie dei fedeli sia ai detrattori della Chiesa? Non certo all’apparato di comunicazione del Vaticano, obsoleto come la stessa istituzione, impreparato all’uso delle nuove tecniche di diffusione, poco pervasivo e poco convincente. E neanche alla stampa cattolica, un settore di nicchia che esclude, per temi e taglio, le nuove generazioni. Meglio dunque contare su quei grandi media italiani che fanno del sensazionalismo la base stessa della loro esistenza sul mercato.
Il connubio si rivela sin dall’inizio vincente. Il papa innovatore e riformista la fa da padrone sui principali giornali e telegiornali nazionali. Dagli interventi istituzionali all’acquisto delle scarpe nel negozietto a due passi da Santa Marta, è tutto un osanna. Bergoglio convince credenti e non, e conquista la quasi totalità del consenso politico, da destra a sinistra. La grancassa mediatica funziona perfettamente a scapito dei principi di correttezza e completezza dell’informazione e dei diritti dei lettori.
«La disparità tra i sessi è un puro scandalo». Nell’aprile 2015 la scoperta dell’acqua calda da parte del papa rimbalza sui media aprendo il dibattito politico e sindacale sulla disuguaglianza dei trattamenti salariali tra uomini e donne. E mentre i giornalisti nostrani si affannano a tirare fuori dal cassetto statistiche, percentuali e studi sociali in nome del pontefice, nessuno nota che a pronunciare l’ovvio è un capo di Stato e nel contempo rappresentante di una religione misogina che alle donne riserva un trattamento ben peggiore della disparità salariale, perché le estromette dall’accesso agli ordini sacerdotali e quindi dal sistema istituzionale che governa la Chiesa e suo Stato. D’altronde l’opinione di Bergoglio sulle donne è ben riassunta da una sua esortazione di un paio di anni prima alle suore riunite nell’assemblea dell’Unione delle superiori generali: «Siate madri, non zitelle». Un messaggio innovativo secondo la stampa nostrana, cui è sfuggito l’arcaico intento di dividere l’universo femminile in due metà, una buona e l’altra cattiva, a rimarcare il cliché della donna che può realizzarsi solo attraverso la maternità, sua primaria finalità. Nella carrellata di “svolte storiche” trova posto a pieno titolo anche una dichiarazione (giugno 2016) sui gay: «Io ripeto il Catechismo: queste persone non vanno discriminate, devono essere rispettate e accompagnate pastoralmente. […] Chi siamo noi per giudicare? Dobbiamo accompagnare bene, secondo quello che dice il Catechismo». Forse prima di declamare a mezzo stampa la sensazionale apertura ai “diversi” sarebbe stata opportuna un’occhiata allo stesso testo citato da Bergoglio, il Catechismo della Chiesa cattolica, laddove definisce l’omosessualità una «inclinazione oggettivamente disordinata» e i rapporti  omosessuali «contrari alla legge naturale. Precludono all’atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale. In nessun caso possono essere approvati». Omofobia? Ma no, carità cristiana.

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