Famiglia, Amnesty International e Fnsi chiedono la verità sulla morte del giovane fotoreporter e dell’attivista per i diritti umani, uccisi da colpi di mortaio mentre raccontavano le prime settimane della guerra tra Ucraina e milizie filo-russe nel Donbass

«Luce». Amnesty, Articolo21 e la Federazione della Stampa italiana la chiedono per la vicenda Rocchelli-Mironov, morti sul campo, un giorno di primavera 2014, nella prima roccaforte della guerra del Donbass, Ucraina dell’est. «Due persone sono state uccise: Andrea Rocchelli e Andrej Mironov. Adesso l’obiettivo è questo: caro governo italiano, devi chiedere a quello dell’Ucraina di far luce su questa vicenda». Queste sono state le parole di Giuseppe Giulietti, presidente della Fnsi.

Alessandra Ballerini, legale dei Rocchelli, come della famiglia Regeni, ha parlato delle ultime foto di Andy, finalmente ritrovate, scattate pochi istanti prima di morire: il lavoro di chi raccontava e denunciava, «con l’incredibile forza d’animo e forse consapevolezza, con quell’unica arma in mano, senza pallottole, che era la sola possibilità di reazione se non di strenua difesa», quella che definisce “la testimonianza estrema”. Negli ultimi scatti di Andy si vede l’atterrito volto di Mironov, il soggetto della foto un attimo prima di condividere il destino del fotografo. Se non ci fosse stata pressione in questi anni, «rimarrebbe solo rumore. Nella sede centrale di Amnesty a Roma, ora, una delle sale si chiama “Mironov”, proprio come Andrej.  Mancano pochi giorni al 24 maggio 2017, saranno tre anni esatti da quel giorno e Noury ricorda che «la verità storica non coincide con quella giudiziaria». C’è la storia, c’è la cronaca di come andò in quei giorni e, alla fine, la giustizia. Da qualche parte deve rimanere nero su bianco, su un documento ufficiale, per questo le indagini sono in corso in due procure, a Pavia e a Kiev.

In quei giorni a Slavjansk – non era più un paese, ma un simbolo, un anticipo di quello che stava per succedere al resto della regione delle miniere di carbone – tra le milizie armate dei filorussi del Donbass, ogni giorno c’era un buco in più lasciato dai mortai e le trincee che si scavavano erano sempre più profonde. Il 24 maggio 2014 la guerra cambiò. Si cominciò a bombardare con la luce, a metà giornata, non solo a ridosso del coprifuoco. Alla barricata di Simonivka c’era una testa di Lenin gruviera, forata di pallottole su cui qualcuno aveva preso la mira. Sul muro a cui si appoggiavano i soldati, che chiudeva la barricata c’era la scritta “per informazioni chiamare il 666”. I soldati di posta erano quasi sempre gli stessi. Bozman non disse mai qual’era il suo vero nome, ma parlava spesso di Grozny e concludeva sempre con la frase “quello era inferno”. Fu proprio con la barricata di Bozman che si scrisse l’inizio del mito del comandante Motorola, all’anagrafe Arsen Pavlov, cittadino russo, nato in Unione Sovietica nel 1983, all’epoca capo brigata alla barricata di Simonivka. In quel maggio 2014 era un basso ragazzo dai capelli rossi, in pochi mesi sarebbe diventato una delle rock star belliche del conflitto, comandante del battaglione Sparta. La sua leggenda ha avuto culla nell’arrocco di Slavjansk, all’incrocio delle quattro strade che collegavano Donetzk a Kharkiv. Bozman non disse mai il suo nome, nemmeno Kripic, nome di battaglia “mattone”, e nemmeno quello che si faceva chiamare Arab, che diceva quello che dicevano i gialloblu sulla collina: «noi siamo pronti a tutto, loro sono pronti a tutto». Non erano ancora stanchi ma lo sarebbero diventati presto.

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