Nel cinquantenario della Guerra dei Sei giorni, l’appello di Amos Oz, David Grossman e decine di intellettuali, politici, militari, artisti israeliani. In cinque punti la richiesta perché termini l’occupazione della Palestina e si adotti la soluzione “due popoli, due Stati”

Quella Guerra cambiò il volto d’Israele. Forgiò una nuova identità nazionale, dette corpo al disegno di “Eretz Israel”. Una guerra di difesa che viene rielaborata in chiave messianicadettando una narrazione per la quale la riconquista di Gerusalemme e del Muro del Pianto, la disfatta inflitta alle armate arabe di Egitto, Giordania, Siria, non era merito delle forze di Tsahal guidate da Yitzhak Rabin, capo di stato maggiore, e dall’allora ministro della Difesa, Moshe Dayan ma della volontà di Dio che aveva guidato il “popolo eletto” a riappropriarsi in toto di Yerushalayim e della Giudea e Samaria (i nomi biblici della Cisgiordania). È la Guerra dei Sei giorni. Da quel 10 giugno 1967 inizia un’altra storia. Nel segno di un colonialismo forzato che fa leva sul tema della sicurezza per alimentare disegni di possesso assoluto. Annota Ugo Tramballi, nel suo libro Il sogno incompiuto. Uomini e storie d’Israele: «Da subito, quando i combattimenti cessarono il 10 giugno 1967, una sensazione di miracolo avvenuto e di onnipotenza si diffusero nel Paese. ‘Quale magnifica nazione abbiamo. In sei giorni un nuovo Stato d’Israele è stato creato’, diceva Abba Eban (ministro degli Esteri nel governo laburista, ndr), alla Knesset. ‘E’ bello essere al potere’, osservava Dayan. ‘Quello che ha fatto fino ad ora l’esercito è un miracolo dei miracoli’ concludeva il premier Levi Eshkol. I nazionalisti e i religiosi approfittarono dell’atmosfera nel Paese e dell’incertezza nel governo per trasformare in realtà una tentazione…». Che le cose sarebbe cambiate nel profondo, lo intuì lo stesso eroe di quella guerra, il mitico generale con la benda sull’occhio, Moshe Dayan, che proibì ai suoi soldati di issare la bandiera d’Israele sul Monte del Tempio, cioè la Spianata delle Moschee. Riflette Zeev Sternhell, il più grande storico israeliano: «Resto fermamente convinto che il sionismo ha il diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi. Chi vuole negare ai palestinesi l’esercizio di tali diritti non può rivendicarli per se stesso soltanto. Purtroppo, la realtà dei fatti, ultimo in ordine di tempo il moltiplicarsi dei piani di colonizzazione da parte del governo in carica, confermano quanto da me sostenuto in diversi saggi ed articoli, vale a dire che gli insediamenti realizzati dopo la guerra del ’67 oltre la Linea verde rappresentano la più grande catastrofe nella storia del sionismo, e questo perché hanno creato una situazione coloniale, proprio quello che il sionismo voleva evitare. Da questo punto di vista, per come è stata interpretata e per ciò che ha innescato, la Guerra dei Sei giorni è in rottura e non in continuazione con la Guerra del ’48. Quest’ultima fondò lo Stato d’Israele, quella del ’67 si trasformò, soprattutto per la destra ma non solo per essa, da risposta di difesa in un segno “divino” di una missione superiore da compiere: quella di edificare la Grande Israele». Il 1967 come svolta, un passaggio epocale, segnato dalla predominanza, politico-ideologica, della Nazione (ebraica) sullo Stato. La Guerra dei Sei giorni – annota Jean Daniel, scrittore e fondatore de Le Nouvel Observateur, nel suo libro ‘La prigione ebraica. Umori e meditazioni di un testimone’ – determina «una vera e propria trasformazione dell’“anima ebraica”» e questo fenomeno avrà «ripercussioni incalcolabili sul giovane Stato ebraico, sui Palestinesi, sugli Arabi e su tutto il Medio Oriente. Ma anche sugli Ebrei ai quattro angoli del mondo, soprattutto in Europa, in Francia, e di fatto sul mondo stesso».