Secondo il sociologo canadese Denis Szabo: «la polizia? La si approva o la si critica, non la si studia». Si rende necessaria questa premessa per entrare nella discussione relativa all’introduzione nella nostra legislazione del reato di tortura, quale strumento di tutela dei cittadini e dei poliziotti nei confronti di eventuali deviazioni comportamentali da parte degli operatori e ricercare altresì alcune risposte nel merito di dichiarazioni fatte dai responsabili delle polizie contrari alla sua formulazione. La massima dello studioso canadese è sacrosanta; nel nostro Paese va registrata nell’ambito dell’erogazione dei diritti prioritari quali salute, scuola, sicurezza interna ed esterna una continua verifica da parte dei cittadini della funzionalità delle strutture sanitarie e dell’istruzione, ma difficilmente si pone attenzione a quelle preposte alla sicurezza. A cavallo degli anni 70-80 le nostre istituzioni repubblicane sotto la spinta dei grandi movimenti e degli stimoli provenienti dall’interno di alcuni dei cosiddetti corpi armati, al fine di contrastare meglio il terrorismo, che martoriava il Paese, misero mano alle riforme degli apparati. Il legislatore formulò la legge 1 Aprile 1981 n. 121, che smilitarizzava la Polizia, trasformando il Corpo delle guardie di Pubblica sicurezza in Polizia di Stato. Solo nel 1990 con la legge n. 395 si giunge alla smilitarizzazione del Corpo degli agenti di custodia con la creazione della polizia penitenziaria: quindici anni dopo la riforma carceraria del 1975. Dopo questi appuntamenti progressisti il Paese e la legislazione in generale hanno prodotto solo iniziative culturalmente “regressive” e di indirizzo specialistico come la Dia (direzione investigativa antimafia ) e la Dda (direzione distrettuale antimafia). Il blocco delle riforme di settore sono coincise con il tracollo della cosiddetta prima Repubblica e del sistema di rappresentanza proporzionale e dei partiti di massa e con l’avvento della seconda Repubblica attraverso il sistema elettorale maggioritario avente come sfondo lo stragismo di Cosa nostra. Il riposizionamento della politica, la scoperta a Bologna nel novembre del 1994 dei criminali della cosiddetta Uno bianca composta in maggioranza da poliziotti, faceva traballare la riforma. Il 12 maggio 1995, con un governo tecnico in carica, si delineava il revanchismo dei comandi dei corpi militari e il tradimento del patto riformista all’interno della polizia mediante l’emanazione di tre decreti legge: la 195 e 197 in materia di rapporti di impiego e di riallineamento delle carriere fra le polizie a status civile e quelle a status militare e forze armate. La legge 196, invece, incentivava il reclutamento di personale volontario nelle forze armate, prevedendo per la prima volta la possibilità di uno sbocco nelle forze di polizia per coloro che avessero terminato la ferma volontaria. Di fatto, i principi culturali che avevano ispirato la riforma di polizia venivano risucchiati dalle esigenze di tutti gli altri corpi militari. Il non-studio delle polizie e delle forze armate porterà la politica a essere presa per mano da questo o da quell’altro responsabile di apparato in un rapporto di totale subalternità: un neo cadornismo, ovvero l’autonomia delle gerarchie e degli apparati militari e della sicurezza dalla politica. Dunque, il peso degli apparati di difesa interna ed esterna è tale che possono coi loro legami inficiare progetti di legge non graditi. La legge di riforma di polizia 121/81 è la vera vittima di questa auto rappresentazione politica delle gerarchie. Il protagonismo culturale dei corpi dello Stato trova il momento più importante nel 1999 con l’intervento a fianco delle truppe Nato nella guerra dei Balcani. Con la legge 31/3/2000 n. 78 si prevedeva la collocazione autonoma dell’arma dei carabinieri a rango di forza armata, provocando un ulteriore riassetto delle carriere direttive e dirigenziali della Guardia di finanza e della Polizia di Stato. Mentre le gerarchie dei corpi facevano le proprie riforme, i ruoli esecutivi stavano a guardare. In questa cornice storica si inseriscono le battaglie per le verità su Genova, il fallimento per l’insediamento della commissione d’inchiesta parlamentare 2007, la bocciatura di Lidia Menapace alla presidenza della commissione Difesa e nel 2012 l’insediamento a ministro della Difesa di un ammiraglio. Sarebbe opportuno riequilibrare il peso politico di questi apparati, i quali giungono fino ad esprimere una sorta di veto non scritto all’approvazione della legge sul reato di tortura presentata in parlamento, obbligando “pezzi” di società a schierarsi in una sorta di appello, di richiesta di voto di fiducia ai cittadini in un momento di particolare insicurezza sociale. Articolo pubblicato su Left n. 21 del 27 maggio 2017

Secondo il sociologo canadese Denis Szabo: «la polizia? La si approva o la si critica, non la si studia». Si rende necessaria questa premessa per entrare nella discussione relativa all’introduzione nella nostra legislazione del reato di tortura, quale strumento di tutela dei cittadini e dei poliziotti nei confronti di eventuali deviazioni comportamentali da parte degli operatori e ricercare altresì alcune risposte nel merito di dichiarazioni fatte dai responsabili delle polizie contrari alla sua formulazione. La massima dello studioso canadese è sacrosanta; nel nostro Paese va registrata nell’ambito dell’erogazione dei diritti prioritari quali salute, scuola, sicurezza interna ed esterna una continua verifica da parte dei cittadini della funzionalità delle strutture sanitarie e dell’istruzione, ma difficilmente si pone attenzione a quelle preposte alla sicurezza. A cavallo degli anni 70-80 le nostre istituzioni repubblicane sotto la spinta dei grandi movimenti e degli stimoli provenienti dall’interno di alcuni dei cosiddetti corpi armati, al fine di contrastare meglio il terrorismo, che martoriava il Paese, misero mano alle riforme degli apparati. Il legislatore formulò la legge 1 Aprile 1981 n. 121, che smilitarizzava la Polizia, trasformando il Corpo delle guardie di Pubblica sicurezza in Polizia di Stato. Solo nel 1990 con la legge n. 395 si giunge alla smilitarizzazione del Corpo degli agenti di custodia con la creazione della polizia penitenziaria: quindici anni dopo la riforma carceraria del 1975. Dopo questi appuntamenti progressisti il Paese e la legislazione in generale hanno prodotto solo iniziative culturalmente “regressive” e di indirizzo specialistico come la Dia (direzione investigativa antimafia ) e la Dda (direzione distrettuale antimafia). Il blocco delle riforme di settore sono coincise con il tracollo della cosiddetta prima Repubblica e del sistema di rappresentanza proporzionale e dei partiti di massa e con l’avvento della seconda Repubblica attraverso il sistema elettorale maggioritario avente come sfondo lo stragismo di Cosa nostra. Il riposizionamento della politica, la scoperta a Bologna nel novembre del 1994 dei criminali della cosiddetta Uno bianca composta in maggioranza da poliziotti, faceva traballare la riforma. Il 12 maggio 1995, con un governo tecnico in carica, si delineava il revanchismo dei comandi dei corpi militari e il tradimento del patto riformista all’interno della polizia mediante l’emanazione di tre decreti legge: la 195 e 197 in materia di rapporti di impiego e di riallineamento delle carriere fra le polizie a status civile e quelle a status militare e forze armate. La legge 196, invece, incentivava il reclutamento di personale volontario nelle forze armate, prevedendo per la prima volta la possibilità di uno sbocco nelle forze di polizia per coloro che avessero terminato la ferma volontaria. Di fatto, i principi culturali che avevano ispirato la riforma di polizia venivano risucchiati dalle esigenze di tutti gli altri corpi militari. Il non-studio delle polizie e delle forze armate porterà la politica a essere presa per mano da questo o da quell’altro responsabile di apparato in un rapporto di totale subalternità: un neo cadornismo, ovvero l’autonomia delle gerarchie e degli apparati militari e della sicurezza dalla politica. Dunque, il peso degli apparati di difesa interna ed esterna è tale che possono coi loro legami inficiare progetti di legge non graditi. La legge di riforma di polizia 121/81 è la vera vittima di questa auto rappresentazione politica delle gerarchie. Il protagonismo culturale dei corpi dello Stato trova il momento più importante nel 1999 con l’intervento a fianco delle truppe Nato nella guerra dei Balcani. Con la legge 31/3/2000 n. 78 si prevedeva la collocazione autonoma dell’arma dei carabinieri a rango di forza armata, provocando un ulteriore riassetto delle carriere direttive e dirigenziali della Guardia di finanza e della Polizia di Stato. Mentre le gerarchie dei corpi facevano le proprie riforme, i ruoli esecutivi stavano a guardare. In questa cornice storica si inseriscono le battaglie per le verità su Genova, il fallimento per l’insediamento della commissione d’inchiesta parlamentare 2007, la bocciatura di Lidia Menapace alla presidenza della commissione Difesa e nel 2012 l’insediamento a ministro della Difesa di un ammiraglio. Sarebbe opportuno riequilibrare il peso politico di questi apparati, i quali giungono fino ad esprimere una sorta di veto non scritto all’approvazione della legge sul reato di tortura presentata in parlamento, obbligando “pezzi” di società a schierarsi in una sorta di appello, di richiesta di voto di fiducia ai cittadini in un momento di particolare insicurezza sociale.

Articolo pubblicato su Left n. 21 del 27 maggio 2017