Rapiti per fare i soldati, comprati per diventare merce di scambio o piccoli criminali, subito dopo aver passato il confine Saudita. Le storie di Mohammad e Moshen nel reportage di Laura Silvia Battaglia che con questo articolo pubblicato su Left ha vinto il Premio Luchetta 2017

Con questo reportage, pubblicato su Left n. 11 del 18 marzo 2017, Laura Silvia Battaglia ha vinto il Premio Luchetta 2017 (sezione Stampa italiana). Il riconoscimento le viene consegnato questa sera a Trieste (diretta tv Rai Uno)

 

Aisha al Samer alle cinque del pomeriggio inizia a guardare ossessivamente l’orologio. è l’ora del maghreb, la preghiera della sera. Se Mohammad non arriva, dopo una ventina di minuti, si attacca allo smart phone. «Ho già spiegato a Mohammad che dopo quest’ora non deve andare in giro e gli raccomando di farsela alla larga da ceckpoint e cattive compagnie». Aisha abita ad Hatarish, periferia Nord di Sanaa, con il marito e quattro figli. Gli altri tre sono già sposati. La casa è un palazzetto di famiglia su una strada sterrata che costeggia l’arteria che porta fuori città, in una terra di mezzo tra il caos dei mercati urbani e la campagna brulla, che alterna fichi d’india a filari di zibibbo rinsecchiti. Mohammad rientra a casa appena il sole cade obliquo sulle ultime galline che razzolano nel cortile e sui sacchi di spazzatura sparsi dappertutto fuori casa e che nessuno, da quando la guerra si è aggravata, raccoglie più. Infila la porta di casa e si distende sul divano. Se l’elettricità è ancora attiva e nel generatore c’è abbastanza gasolio, inizia a chattare su whatsapp. «Sono preoccupata per Mohammad e per i ragazzini della sua età», dice la madre, facendo cenno al figlio di 15 anni, non più totalmente bambino, non ancora abbastanza uomo. «Il nostro quartiere è tranquillo ma le famiglie sono preoccupate: arrivano spesso notizie di ragazzi della sua età rapiti, che spariscono nel nulla. Qualcuno lo rivedono nei check point dei ribelli, strafatto di qat. Se va male, le famiglie hanno notizia direttamente della loro morte: gli houti li portano al fronte». Gli adolescenti yemeniti come Mohammad, infatti, sono in potenza truppe fresche, giovani, inesperte, temerarie e senza alcun costo. Le parti in guerra lo sanno e fanno del loro meglio per cooptarli. Mohammad non commenta le preoccupazioni della madre ma conferma a cosa può portare l’horror vacui di un adolescente in guerra: «Per fortuna la scuola adesso è di nuovo aperta, ma per sei mesi non c’è andato nessuno. Mi annoiavo a morte. Non hai alternative: o vai in strada a giocare o, se ci credi, fai sul serio. Qualche mio amico ha fatto sul serio e non lo vedo da tempo». Un rapporto recente di Amnesty International sul reclutamento di bambini-soldato sulla linea del fuoco, da parte delle milizie huthi conferma le preoccupazioni di Aisha e delle madri come lei. Secondo le testimonianze raccolte dall’organizzazione internazionale, molte famiglie acconsentono al reclutamento, dietro la promessa di un pagamento di 20mila-30mila yemeni rials al mese (pari a 80-120 dollari), se il bambino diventerà un “martire”. Il pacchetto del reclutamento promette anche dei poster da esibire permanentemente nel quartiere, in caso di decesso, e onori tribali. Va sottintesa la destinazione-paradiso, vuoi per la giovane età, vuoi per la morte eroica. Anche le agenzie Onu documentano più di 1500 casi di bambini reclutati da entrambe le parti dall’inizio della guerra, a marzo 2015, con il 60% dei bambini uccisi o feriti da azioni commesse dalla coalizione a guida saudita, e il 20% in azioni ascrivibili alla responsabilità dei ribelli huthi. Human Rights Watch rendeva conto del reclutamento dei bambini-soldato già prima dell’inizio del conflitto. Ma la guerra ha solo peggiorato una realtà che per i minori in Yemen – il Paese più povero del mondo arabo – è stata sempre piuttosto dura. Mancanza di accesso ad acqua e cibo, malnutrizione, condizioni sanitarie disastrose, bassa scolarizzazione, matrimoni precoci, sono solo alcuni degli aspetti più critici di una condizione di emergenza cronica, particolarmente per gli abitanti nelle campagne, negli slums, per i muhamasheen (i paria della società yemenita, quasi tutti scuri di pelle), per i rifugiati dal Corno d’Africa, per gli abitanti nelle aree del Nord, interessate a guerre locali nei primi anni Duemila. Mohsen viene da lì, da Sadaa. Un’area interessata a guerre interne già prima del conflitto attuale. è bloccato da due anni nel Centro per la protezione dell’infanzia ad Haradth, dove è finito dopo essere stato venduto e trafficato verso l’Arabia Saudita. L’avevamo già incontrato nel Centro nel 2014, ancora bambino. Oggi è un adolescente smilzo: «Mia madre è morta, mio padre si è trasferito in Arabia Saudita per lavoro. Ha lasciato me e le mie cinque sorelle da soli. Abbiamo solo una zia anziana che si prende cura di noi. Un giorno è arrivato un conoscente del villaggio e mi ha portato via, dicendomi che mi avrebbe fatto rivedere mio padre a Ryadh. Ma siamo arrivati qui, ad Haradth, al confine con l’Arabia Saudita e mi ha costretto a mendicare per strada. Il giorno dopo ho visto un uomo cieco dalla parte della strada dove mi ero riparato per la notte. L’uomo mi ha chiesto di attraversarla. L’ho aiutato. Appena l’abbiamo attraversata è arrivata una macchina. Mi hanno caricato e l’uomo cieco è spartito. Sono finito in Arabia Saudita dove un uomo mi ha insegnato a spacciare. Dopo un mese, una sera mi ha pizzicato la polizia. Mi hanno rispedito dritto dritto in frontiera e ho passato due notti in carcere. Poi mi hanno rimpatriato e mi hanno messo qui. Cercano i miei parenti da un anno per riprendermi ma nessuno si è fatto vivo. Poi è scoppiata la guerra e sono rimasto qui. A dire il vero, da qui non me ne andrei mai». Mohsen è soltanto uno dei 500 bambini al mese che, secondo Unicef, già nel 2013 venivano sottratti alle famiglie indigenti o venduti dalle stesse per un massimo di mille dollari, per attraversare il confine ed esercitare attività illegali in Arabia Saudita. La guerra non ha interrotto il business del trafficking di minori: l’ha soltanto dirottato altrove. Oggi Haradth, la Ciudad Juarez dello Yemen, ha il confine blindato. Non si passa più in Arabia Saudita. Piuttosto bisogna preoccuparsi di essere raggiunti da qualche bomba sganciata dagli aerei della coalizione. Il confine più trafficato è sul mare, nel porto di Mukalla, a Sud del Paese. Qui, secondo la Ong The Muna Relief Organization, centinaia di bambini tra i 6 e i 15 anni d’età sarebbero oggetto di rapimento per sfruttamento sessuale. Secondo l’organizzazione, i trafficanti si appoggerebbero alla rete di Aqap (al Qaeda nella Penisola arabica) che fino a poco tempo fa controllava la città e il porto di Mukalla, avendovi stabilito un califfato indipendente. L’Ong basa il suo rapporto su una serie di testimonianze dall’area di Abyan – città e governatorato nei quali ha avuto sempre ampio consenso – sia nell’area del porto di Mukalla, dove un graduato della polizia yemenita (Yemen Central Security Forces), la cui identità resta anonima per ragioni di sicurezza, avrebbe affermato che «i bambini trafficati nel mercato della prostituzione vengono destinati a ricchi committenti nei Paesi del Golfo persico, salpando dal porto di Mukalla verso l’Etiopia o Gibuti, e da qui verso i Paesi del Golfo, o direttamente da Mukalla alla destinazione del committente. Al Qaeda ha fatto milioni di dollari con questo traffico e la guerra ha accellerato gli affari». Nabil Fadel, direttore della Ong yemenita Yocht, nata per combattere il traffico dei minori, fa spallucce nel suo ufficio di Sanaa: «Prima della guerra questi reati non erano sotto i riflettori perché l’obiettivo delle forze di polizia era combattere il terrorismo; adesso è peggio che andar di notte. La guerra ha annullato una serie di emergenze che oggi vengono percepite come problemi secondari. Se prima le famiglie minimamente collaboravano, pur essendo recalcitranti alle denunce per paura di essere accusate di non essersi prese cura abbastanza dei loro figli o addirittura di avere acconsentito a certi crimini, vendendo i bambini cedendoli a terzi o ricavando dei benefit in denaro, adesso non rispondono nemmeno. è già tanto che siano tutti vivi, sotto le bombe. E poi, in questo Paese la paura dello stigma sociale è più forte della guerra».