La regina della scena minimalista americana si racconta, ricordando le collaborazioni con Philip Glass e Robert Wilson. Oggi il premio a Venezia

Gli anni Settanta a New York…che periodo straordinario, quando gli artisti di diverse discipline si incontravano e collaboravano, quando l’arte usciva dai teatri e dalle gallerie per andare nelle strade, sui grattacieli ed entrare nei loft. Erano gli anni della pop art e del minimalismo, del Living Theatre e di Merce Cunningham. Erano gli anni in cui Lucinda Childs, la coreografa e danzatrice americana diventata un punto di riferimento, creava la sua compagnia. Era il 1973, ma già da una decina di anni si era avvicinata alla coreografia unendosi al gruppo di artisti del Judson Church Theater, realizzando brevi pezzi senza musica che rifiutavano i canoni della danza moderna, una tra tutte “Street Dance”, sei minuti per raccontare agli spettatori affacciati da un loft i movimenti dei passanti in strada. Le regole, si sa, lei non le mai sopportate. Ed è a Lucinda Childs, classe 1940, che è andato quest’anno il Leone d’oro alla Carriera consegnato in apertura dell’undicesima edizione della Biennale danza contemporanea (23 giugno – 1 luglio), “per la sua pratica fortemente autoriale e la purezza delle sue proposte formali che creano una profonda emozione, e annoverano le sue opere fra i nuovi “classici” della storia della danza”. Al Festival ha presentato “Dance”, titolo manifesto del minimalismo astratto, “Katema” e “Dance II”. E nei prossimi giorni la Biennale di Venezia ospiterà anche altri grandi nomi come quello di Louise Lecavalier, Benoît Lachambre, Robyn Orlin, Xavier Leroy, Mathilde Monnier e La Ribot, e new entry in forte ascesa come Dana Michel, Leone d’argento 2017, Alessandro Sciarroni, Lisbeth Gruwez, Daina Ashbee, Clara Furey, Ann Van den Broek.

Lucinda, nella sua lunga carriera ha realizzato oltre 50 coreografie. Lei è diventata un’icona della danza controcorrente: è salita sul palco indossando dei bigodini in testa, mangiando una mela, ripetendo gesti infinitamente semplici: all’inizio come ha reagito il suo pubblico?
“Nei primi anni ’60 la maggior parte degli spettatori che avevamo alle nostre prime opere ispirate a Merce Cunningham e a John Cage erano artisti della comunità d’arti visive, che, dunque, avevano esigenze estetiche simili alle nostre, in particolare era il movimento della pop art. Così, la reazione era davvero aperta e positiva, ma era un pubblico molto limitato”.
Spinta da quali esigenze è nata la danza postmoderna?
“La danza postmoderna segue la tradizione moderna, che si basa soprattutto sulla narrativa. Come nel lavoro di Martha Graham, capisci che c’è sempre una storia, una narrazione, un’azione drammatica che è rappresentata dalla danza. Con l’avvento di Merce Cunningham la danza è diventata completamente astratta, senza storia o narrazione di alcun tipo. Merce si sentiva molto forte che la danza in sé e in sé è ciò che dobbiamo guardare, piuttosto che preoccuparci della narrazione”.
Lei ha collaborato con grandi artisti, ad esempio Philip Glass e Robert Wilson. Si ricorda come è andato il suo primo incontro con quest’ultimo?
“Il mio primo incontro con Robert Wilson è avvenuto a Broadway dopo la sua performance del 1974 “A Letter for Queen Victoria”. Ero ispirata nel vedere un grande artista che lavorava in un ambiente teatrale tradizionale. Quando l’ho conosciuto, mi ha chiesto di collaborare con lui e io, ovviamente, ho detto subito di sì e abbiamo lavorato insieme per “Einstein on the beach” “.
La sua prima apparizione in Italia fu proprio con “Einstein on the Beach” a Venezia, giusto?
“Sì, mi ricordo che venimmo a Venezia per le messa in scena e fu un’esperienza incredibile, allo stesso tempo vedere la collezione Peggy Guggenheim e, naturalmente, far parte di quella grande comunità di artisti emergenti era entusiasmante, ma forse anche controverso in quel momento”.
Dance”, manifesto del minimalismo astratto di cui lei è una pioniera e destinato a influenzare generazioni di ballerini (musica di Philip Glass), è stato presentato ora in Italia per la prima volta, in apertura di Biennale, con il film-décor in rigoroso bianco e nero che l’artista americano Sol Le Witt aveva creato nel 1979. Dopo tanti anni è sempre così emozionante e attuale mostrare certe coreografie?
“ “Dance” ha ormai quasi 40 anni e naturalmente i ballerini del film di LeWitt provengono da un tempo diverso e hanno un diverso tipo di formazione e di background. È incredibile che molti dei danzatori che hanno iniziato con questa particolare rivisitazione di “Dance”, avvenuta nel 2009, stiano ancora ballando nella coreografia con me 8 anni dopo. Siamo davvero entusiasti di poter continuare a portare in giro il nostro lavoro. Nella messa in scena di oggi i danzatori ripresi nel film di LeWitt del 1979, tra i quali ci sono anch’io, dialogano con i corpi in scena degli undici interpreti della nuova compagnia, riattualizzando la coreografia alla luce del contrasto tra la fisicità dei danzatori degli anni 70’ e dei danzatori di oggi.”.
Lei, in effetti, si è esibita in tutto il mondo, ma forse molto più in Europa rispetto all’America.
“Sì, è vero che il mio lavoro in Europa è stato visto da molte persone e con una frequenza senza dubbio maggiore rispetto alle esibizioni della mia compagnia negli Stati Uniti. È grazie alle rivisitazioni del mio lavoro negli ultimi anni che i miei danzatori hanno avuto così tante repliche, ma è soprattutto nella comunità europea che le nostre opere vengono presentate. La coreografia, in generale, è una forma d’arte per me abbastanza imprevedibile. Non sono mai sicura di ciò che davvero accadrà quando entro in studio con i miei ballerini. Dico sempre che non sono realmente portata alla matematica, ma faccio molte misurazioni con i conteggi come modo per esplorare le opzioni possibili per organizzare le relazioni reciproche tra i danzatori nello spazio e nel tempo”.