Bilal s’era da poco laureato. Una di quelle lauree alla moda, con un nome carico di vaghe ma luccicanti promesse: management. Poi è partito per la Libia e neanche un mese dopo s’è sparato in cielo portando con sé ventun persone. Era partito con Seif che aveva appena comperato il suo primo scooter a rate: a modo suo un progetto, la promessa di mille avventure sulle strade sconnesse della Tunisia profonda: ma vuoi mettere se ti si prospetta l’occasione di saltare in piena notte su un camion di mangime per agnelli e passare la frontiera insieme al gruppo degli amici, per andare tutti insieme a combattere?
Anche Youssef studiava per diventare un manager. Esperto di occhiali da sole e profumi, si portava avanti con un suo piccolo commercio di griffe contraffatte. È morto a Kobane, combattendo nei ranghi di Daesh, sotto le prime bombe americane. Youssef era il fratello di Dj Costa, uno dei piû noti rapper della Tunisia: lo seguiva a tutti i concerti, da un giorno all’altro ha smesso di rivolgergli la parola, la musica era diventata per lui improvvisamente haram, peccato. Dj Costa non ha solo perso un fratello minore molto amato, il jihad gli ha portato via anche un amico, compagno di formidabili jam session: si chiamava Emino, detto don Camaleon e ha raggiunto una certa notorietà, dapprima con un video che lo ritrae al night circondato da ragazze sofisticate in minigonna, fumo di sigari e bicchieri tintinnanti colmi di whisky, poi con una fotografia che lo ritrae in Iraq in compagnia di una capra, indosso non piû il completo stiloso da gangsta ma una semplice tunica salafita e una kefiah d’ordinanza.
Seifeddine invece era un giovane ingegnere. Frequentava un master prestigioso e prima di uccidere e farsi uccidere ha sostenuto gli esami di fine anno. Era, anche, un provetto ballerino di break dance. Si esibiva per i turisti su quella stessa spiaggia di Sousse dove un giorno d’inizio estate si sarebbe presentato con un kalashnikov tra le mani: non piû Sésco, come lo chiamavano quando danzava, ma Abu Yahya al Kayrawānī.
Poi ci sono Ghofran e Rahma, facevano le majiorettes: un giorno hanno portato alla discarica i loro strumenti musicali, le bambole e i peluches, le t-shirt piû carine. “Improvvisamente parlavano tutto il tempi di Corano”, ci ha detto la loro mamma, “Se durante la cena raccontavo loro qualche piccolo fatto che era accaduto al lavoro o nei negozi del quartiere, mi rispondevano piccate: che t’importa delle persone, non si parla delle persone, pensa a Dio! Poi si alzavano, si chiudevano in camera, andavano su Facebook col telefonino e conversavano con gente che stava in Siria”.
Negli ultimi tre anni abbiamo attraversato più volte la Tunisia e il suo apparente paradosso: il paese musulmano storicamente più vicino all’Europa è anche quello che ha fornito il maggior numero di giovanissimi combattenti al sedicente Stato islamico. Volevamo capire come un ragazzo possa passare dalle capriole al massacro, dalla tenerezza all’odio, dagli eccellenti voti scolastici alla smania di morire. L’abbiamo chiesto a quanti l’hanno visto accadere. Abbiamo ascoltato a lungo i genitori, i fratelli, gli amici, gli insegnanti, gli allenatori sportivi dei tanti giovani “cambiati all’improvviso”. Abbiamo cercato di familiarizzare con il dolore di quegli estranei, e in definitiva con i molti fantasmi che popolano un mondo per noi europei abbastanza indistinto: un mondo che spesso pretendiamo di giudicare da lontano incapaci di riconoscerne la tragedia e di concedere ai percorsi altrui le stesse complessità che rivendichiamo per noi come un diritto. Non avevamo domande da rivolgere perché ci interessavano quelle – e sono molte – che loro stessi si facevano.
La prima cosa che abbiamo capito è che il forsennato entusiasmo con cui i ventenni tunisini hanno raggiunto i campi di battaglia siriani, iracheni e libici è il sintomo più lampante d’un male che va lentamente spandendosi un po’ ovunque nel mondo. Che tra quei giovani non necessariamente marginalizzati, cresciuti in famiglie di ogni tipo e fino a un attimo prima assorti in frivole faccende, vada tratteggiato il ritratto di gruppo di generazioni capaci di passare rapidamente dall’inseguimento di una identità globale all’ossessione identitarista. Non più aspiranti cittadini del mondo, ma alla ricerca di una identità forte di tipo tradizionale (là: «Io sono un musulmano»; qua: «Io non sono europeo, io sono francese, italiano, del nord Italia…»). E per questo in forte polemica con i padri, intesi come maschi musulmani adulti, accusati di essersi troppo allontanati dalla tradizione e di avere perso la loro autorevolezza pubblica.
Succede, là come qua, in un momento di crisi economica. E se tutto ciò che viene offerto ai ragazzi è oggi disoccupazione, corruzione, ingiustizia, come stupirsi che la religione, così piena di promesse, appaia ai loro occhi improvvisamente seducente? L’Islam radicale, uno dei tanti pensieri populisti e demagogici che oggi attraversano con grande fortuna il nostro mondo, su questo gioca la sua partita.
I reclutatori usano infatti il linguaggio e gli strumenti di tutti i populisti. Distillano teorie semplificatorie e parole divisive (“noi” e “loro”, anche là). Soffiano sul fuoco dei sentimenti di vittimismo e frustrazione e naturalmente trovano negli algoritmi che polverizzano e riducono in bolle il vasto mondo dei social network degli straordinari alleati.
«È incredibilmente facile creare il vuoto attorno a un ragazzino che sta su Facebook, separarlo dalle abitudini, allontanarlo emotivamente dalla famiglia e dalle persone che gli sono più care», ci ha detto un ex jihadista oggi impegnato a prevenire la radicalizzazione nel web.
Ma altrettanto illuminanti sono state per noi le parole di uno che è riuscito a venirne fuori e ora sa tutto su come ci si costruisce un’ identità solida, e a quali prezzi. Si chiama Abderhamen, a 18 anni aveva scoperto il salafismo e pensava di avere finalmente trovato qualcosa a cui appartenere; a 20 si è iscritto a Teologia e si è sudato sui libri il distacco critico da quel mondo; ora che ne ha 23 studia per la seconda laurea, Antropologia, e si definisce un umanista. Ci ha raccontato che i reclutatori presentano il Corano come fosse un manuale di informatica o ingegneria.
E ingegnere, come tantissimi jihadisti, è Malik. Lui ha combattuto contro gli americani in Iraq tra il 2003 e il 2004, è accorso in Siria dieci anni dopo, ha assistito all’arrivo di Daesh ad Aleppo, al repentino cambiamento dei metodi e delle facce, alle mattanze insensate (ci ha raccontato come ha visto ammazzare un bambino la cui unica colpa era di aver pronunciato invano il nome del Profeta), finchè quei suoi invasati fratelli minori, che non riconosce come tali, hanno cominciato a fare paura persino a lui, e per salvare la pelle è stato costretto a tornarsene a casa. «La verità» ci ha detto, «è che Daesh quando è arrivato in Siria ha rovinato tutto».
Malik, che ora guarda da lontano la disfatta sul terreno di un Califfo che non riconosce come tale, pensa che l’Iraq sia la chiave di tutto quel che sta accadendo ora. «Voi ve lo siete già scordato, noi no, per noi non è possibile dimenticare quel che succedeva nel carcere di Abu Ghraib. Un male così non passa mai, ogni volta che ci pensi senti che vuoi restituirlo, anche un bambino che sta nascendo ora, forse un giorno lo sentirà. Non si può sapere adesso come reagirà quel bambino tra vent’anni. La storia ce lo sta insegnando».