Un singolare incontro con la Biblioteca vivente a Roma. I “libri umani” raccontano le loro storie ai lettori. Tutti ragazzi di origine straniera ma nati o vissuti nella Capitale. «Ci chiamano 2G, ma non siamo secondi a nessuno, siamo nuove generazioni»

In un sabato mattina di giugno a Roma una biblioteca comunale apre le porte del suo giardino ai “libri umani”. Seduti nelle loro postazioni sotto l’ombra di un albero o di un gazebo sono pronti a narrare la propria storia. Si chiamano Nibir, Ruz, Kwanza, Fioralba, Samir, Roberto, Freddy, Amarilda, Igor, ragazzi dai nomi particolari ma con un denominatore comune. Tutti di origine straniera, ma nati o cresciuti a Roma. Ecco, sono loro la Biblioteca vivente.
Elaborata dalla cooperativa milanese ABCittà, in collaborazione con Roma Capitale – Biblioteche di Roma (Roma Multietnica), il giornale Piuculture, l’associazione New Romalen e Spazio culturale Rampa Prenestina, la Biblioteca Vivente 2G ha affrontato il tema delle seconde generazioni. Pregiudizi che s’incontrano e si scontrano con scorci di autobiografie. Ogni lettore ha 30 minuti di tempo per consultare un libro umano. Ogni incontro parte da una storia e poi si trasforma, una vera e propria interazione tra libro umano e lettore. «Alla fine mi sono trovato a interessarmi anche io della vita del mio lettore», racconta Nibir, ragazzo bengalese. La sua storia parla di jeans e punjabi (il vestito tradizionale bengalese) e di tutte le volte che viene fermato dalla polizia quando lo indossa. Samir, ragazzo rom di 31 anni racconta invece il passaggio da Casilino 900 a Salone. Ed è proprio quell’indirizzo scritto sulla sua carta di identità, Via di Salone, 323 che non gli permette di trovare una casa in affitto nonostante abbia un contratto di lavoro. Freddy, capoverdiano: la sua storia inizia con il naso rotto per uno spintone di un bullo a scuola quanto aveva 14 anni. «Mi sono emozionato a fare il libro umano. In genere sono sempre io ad ascoltare gli altri, mentre questa volta erano gli altri ad ascoltare me».

Amarilda ha una storia che si scontra con la tradizione del Paese dove è nata, l’Albania. «Un paio di anni fa ho portato il mio nipotino di 6 anni in vacanza. In spiaggia ho incontrato altre due ragazze albanesi poco più grandi di me, che non ci hanno pensato due volte a mostrarmi il loro disappunto: “Amarilda, che sia l’ultima volta che porti il tuo nipotino in vacanza, tutti penseranno che è tuo figlio e non troverai mai marito”». Giovane trentenne, Amarilda cerca la propria realizzazione personale a prescindere dalla cultura del proprio Paese di origine o da quella del Paese dove è cresciuta.
Ruz è il piccoletto del gruppo, ragazzo rom di 15 anni. Jeans, maglietta bianca e un taglio di capelli alla moda. «L’anno scorso, sull’autobus, una signora iniziò a urlare contro una famiglia rom perché erano sporchi. Diceva che tutti i rom sono così. Mi sono arrabbiato tantissimo, ho iniziato anche io a gridare contro la signora e dirle: “Mi guardi anche io sono rom e sono pulito e profumato, lo vede che non siamo tutti uguali?” Dopo sono sceso dall’autobus, con ancora un po’ di rabbia dentro. Io sono nato in Italia in un campo rom, poi ci siamo trasferiti in una casa. Mio padre ha rubato nella sua vita ed è anche finito in galera» racconta abbassando lo sguardo.

«Ma a me ripete tutti i giorni che quelli sono stati degli errori e che io mi devo impegnare a studiare». Ruz ha capito l’importanza di andare a scuola ed ha appena finito il primo anno delle superiori. Kwanza ha la mamma italiana, il papà brasiliano ed è nata in Germania. Il titolo del suo libro umano è Melanina. «Un giorno un mio amico mi ha detto: ma voi neri sentite più caldo visto che avete la pelle scura?» racconta Kwanza divertita. Pregiudizi e ignoranza a volte si trovano anche in persone dalle quali meno te lo aspetti. I 2G? «Non siamo secondi a nessuno, siamo nuove generazioni», conclude Kwanza.

(Foto di Simone Zamatei ©)

 

 

L’articolo di Amarilda Dhrami è tratto dal numero di Left in edicola


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