Le connessioni si vedono e le teorie non mancano. Dei fili della matassa del Russian Gate che si stanno sciogliendo a Washington mancano solo gli anelli di congiunzione, le prove evidenti, le pistole fumanti di un cerchio che si attorciglia intorno a un altro.

All’alba del mattino del 16 luglio, gli Stati Uniti d’America si sono svegliati al grido cinguettato del loro presidente che li informava che «#FakeNews is distorting democracy in our country» (le fake news stanno distorcendo la democrazia nel nostro Paese). Eppure, dietro l’ennesimo tweet contro i media, c’è proprio l’azione di un giornalista, un vecchio amico della famiglia Trump, che cercava di aiutare Donald durante la campagna elettorale, quando era solo un candidato improbabile del partito, su cui nessun repubblicano voleva scommettere. È il 2016 quando il reporter di un tabloid inglese, Rob Goldstone, intermediario tra il clan di The Donald e affaristi russi, manda un messaggio al figlio dell’attuale presidente degli Stati Uniti: ci sono documenti ufficiali e informazioni utili, dice, contro la candidata democratica nella battaglia presidenziale, Hillary Clinton. Queste informazioni, dice Rob, sono «sensibili», «di alto livello, e sarebbero utili a tuo padre». Tutto ciò fa parte «del sostegno del governo russo per Trump». Un contributo che, risponde Donald junior, «ama, soprattutto a fine estate». Il cerchio del Russian Gate, come un cappio politico, si sta facendo sempre più stretto intorno ai Trump e tutto quello che lo riguarda è ormai una specie di segreto pubblico.
È così – ha scoperto il New York Times – che Trump figlio ha incontrato nella torre che porta il suo nome, l’avvocatessa Natalia Veselnitskaya, 42 anni, moscovita, laureata in legge nel 1998, dirigente della Camerton, società legale privata, amica del procuratore generale nominato da Putin, Yuri Chaika. Si incontrano d’estate al 25esimo piano della T tower: sopra le loro teste c’è l’ufficio di Trump padre, dietro di loro, invece, c’è un altro avvocato e un’altra epoca di corruzione e ritorsioni di Washington contro Mosca.

Serghey Magnitsky aveva 36 anni quando è morto in un carcere moscovita nel 2009 in circostanze misteriose. Nonostante fosse morto, per la prima volta nella storia e in contrasto con lo stesso diritto penale, la sentenza del reato di cui era accusato – frode fiscale – venne comunque emessa. Anche un altro provvedimento legale però portava il suo nome: la legge firmata da Barak Obama nel 2012, passata alle cronache come il Magnitsky act, una lista nera di ufficiali russi, coinvolti nella violazione di diritti umani. La risposta in arrivo da Mosca a quella decisione dell’ex presidente è stata il divieto di adozione dei bambini russi per le famiglie americane. Nei casi di corruzione su cui indagava il deceduto Magnitisky erano coinvolti membri e ufficiali del governo Putin e la donna che incontra il figlio di Donald Trump nel 2016 è arrivata negli Stati Uniti già un anno prima, proprio per difendere uno di loro: il figlio di un esponente governativo, Denis Katsyv, alla sbarra del tribunale USA con l’accusa di aver riciclato denaro sporco per 14 milioni di dollari, dopo averne frodati 230, con la sua società Prevezon.

All’incontro con Trump junior e l’avvocatessa di Mosca partecipa anche Anatoly Samochornov, un traduttore che aveva lavorato sia con la Veselnitskaya che con il dipartimento di Stato americano, e un presunto ex agente della GRU, i servizi segreti russi, Rinat Akhmetshin, che ha doppio passaporto, sia russo che americano, e molti interessi, dopo essere diventato lobbista a Washington.

Akhmetshin smentisce alla stampa: ha servito nell’esercito dell’Armata Rossa dal 1986 al 1988, dove non è mai stato addestrato per diventare una spia, ha solo partecipato a qualche operazione di controspionaggio nel Baltico. All’incontro ai piani alti ci sono otto persone e una cartellina di plastica: le informazioni “high level”, compromettenti e dannose su Hillary e sui finanziamenti illeciti finiti al suo comitato, sono state stampate e trasportate su carta. Lo stesso Akhmetshin ha ammesso di non sapere due cose: da dove vengono quei dati – se dal Cremlino – e dove vanno a finire. Perché nessuno sa se la cartellina di plastica rimane al 25esimo piano, nella stanza, o se qualcuno del team americano la prende. Questo, secondo Adam B. Schiff, deputato democratico della California della commissione Intelligence alla Camera, è «solo un altro dettaglio disturbante su questo incontro segreto» e un’ennesima prova di collusion with the Russians, quella che Jay Sekulow, della squadra legale del presidente Trump, va in onda su tutti i canali tv a smentire quotidianamente.

Trump figlio – è questa l’ultima versione dei fatti – era interessato alle informazioni compromettenti su Hillary, ma non sapeva, rivela ora, provenissero dal Cremlino e con suo padre, comunque, dell’incontro non ha mai parlato. Per gestire le risposte giuste sul Russian Gate, di cui ogni giorno una puntata nuova viene pubblicata dai quotidiani americani, è stato ora assunto Ty Cobb, tra gli avvocati più in vista nella capitale. Sui legami della Veselnitskaya con il Cremlino, recentemente pubblicati, è arrivata subito una smentita dalle autorità sulla Moscova e dal portavoce del presidente russo, Dimitry Peskov. È il deputato Adam Schiff che sta premendo adesso per chiamare a testimoniare in commissione Rinat Akhmetshin, riguardo quell’incontro avvenuto solo una settimana prima che gli hacker riuscissero a violare il server delle mail del comitato democratico – un evento che, per molti in America, ha cambiato l’esito delle ultime e più controverse elezioni americane. Le connessioni si vedono e le teorie non mancano. Dei fili della matassa del Russian Gate che si stanno sciogliendo a Washington mancano solo gli anelli di congiunzione, le prove evidenti, le pistole fumanti di un cerchio che si attorciglia intorno a un altro, lasciando nel mezzo, a galla, nomi e interessi, avvocati, lobbisti, agenti segreti, russi e americani. Sono già fuori il generale Micheal Flynn – dimessosi dopo aver mentito sui suoi contatti col governo russo. Prima di lui è stato allontanato Paul J. Manafort, ex capo della campagna elettorale di Trump, ma anche di Viktor Yanukovich, l’ex presidente filorusso scappato da Kiev dopo la rivoluzione di Maidan. Jered Kushner, marito di Ivanka Trump e consigliere di suo padre, ha incontrato l’ambasciatore russo, ma è ancora al suo posto, dove probabilmente rimarrà anche Donald Trump junior finché al suo posto rimarrà anche suo padre.