Scritto volutamente minuscolo. Delrio ieri ha testimoniato nell’ambito del processo Aemilia per raccontare di quella sua visita all’allora prefetto di Reggio Emilia Antonella De Miro in cui prese le difese degli imprenditori cutresi, alcuni dei quali si rivelarono mafiosetti poco raccomandabili. Delrio si è difeso dicendo che «non era in discussione lo strumento delle interdittive», bensì «il fatto che nella comunità dei cutresi non ci fossero persone perbene». «A fronte di una crescita dell’opinione pubblica – ha detto Delrio – e di notizie allarmanti che emergevano sulla stampa, qualcuno si sentiva ingiustamente accomunato ai delinquenti e questo è un fenomeno da stigmatizzare perché i cittadini reggiani sono sia di origine cutrese che non. Quelli che fanno i delinquenti lo fanno e le persone perbene non devono dire da dove vengono per dimostrarlo». In pratica il ministro ci dice che da sindaco si è preoccupato più di difendere i cutresi dal rischio di ghettizzazione piuttosto che preoccuparsi dei segnali che la prefettura gli inviava in tema di criminalità organizzata.
Delrio ha anche minimizzato il suo viaggio a Cutro (mentre era sindaco di Reggio Emilia) dichiarando di avere ricevuto numerosi inviti. Non c’è che dire: dalle dichiarazioni emerge una consapevolezza quasi nulla sul pericolo mafioso. Beato lui. «Un sindaco non può rendersi conto delle infiltrazioni mafiose solo perché il prefetto adotta i provvedimenti o perché viene il dottor Gratteri a parlare del pericolo», aveva dichiarato nel 2012 il magistrato antimafia Roberto Pennisi.
E oggi quella frase sembra vera più che mai.
Solo che questo, alla fine, è diventato ministro. Per dire.
Buon mercoledì.