È nell’“anno senza estate” che Mary Shelley concepisce l’idea di Frankenstein, o il moderno Prometeo. L’eruzione del Tambora, vulcano di una remota isola dell’Oceano Indiano, avvolge di polveri l’emisfero settentrionale, riduce la radiazione solare e sconvolge le stagioni. Tutto avviene in quella fredda estate di 200 anni fa sul lago di Ginevra, dove la diciottenne Mary, assieme al futuro marito Percy Shelley, è ospite di Lord Byron, della sorellastra Claire Clairmont, amante del poeta, e del loro medico John Polidori a Villa Diodati. Costretta in casa dal maltempo, la compagnia inganna le ore leggendo storie di fantasmi e Byron, in una sorta di concorso letterario, lancia una sfida: ognuno di loro dovrà scrivere un racconto dell’orrore. Tutti si impegnano ma solo due onorano la scommessa, Mary con Frankenstein e John Polidori con il racconto Il Vampiro che suggerirà Dracula a Bram Stoker. L’ispirazione, che per la Shelley tarda a venire, si palesa con forza una notte nel dormiveglia: «Vidi lo scienziato dall’arte sacrilega, inginocchiarsi, pallido, accanto alla cosa che aveva messo assieme, l’orrida forma di un uomo disteso, vidi una macchina che entrava in azione e il cadavere che mostrava segni di vita. Aprì gli occhi e io sgranai i miei per il terrore».
Nasce così un fenomeno letterario unico che attraversa intramontabile questi due secoli: travalica i confini del gotico per affondare nelle paure del Romanticismo; sfrutta il romanzo epistolare per adottare una rarità assoluta; genera il primo romanzo di fantascienza per entrare come mito nella cultura popolare. Un’opera cioè senza tempo e senza contesto che talvolta si fa solo titolo. Chi ode la parola Frankenstein crea in sé un’immagine o un pensiero, ma dietro sono spesso scomparsi l’autrice, la trama, i personaggi. È curioso infatti che Frankenstein vada spesso erroneamente ad identificare l’essere deforme richiamato alla vita dalla materia inanimata e non il suo creatore Victor, «scienziato dall’arte sacrilega». Il mostro è, e va osservato, senza nome. Ma questo banale quanto comune equivoco può essere il pretesto per approfondire la ricerca e cogliere, dietro gli apparenti aspetti di continuità, i tratti del romanzo che creano una rottura con la tradizione letteraria e filosofica dell’epoca.