Sono le parole della figlia di Francesco Nuti, da anni non più autonomo. Una piccola storia che è la stessa di tanti figli che fanno da badanti ai genitori. E che nessuno racconta

«All’epoca io avevo solo 7 anni. Sono cresciuta con la mamma, tra Milano e Roma. Ora papà è stato ricoverato in un centro privato qui a Roma e io posso vederlo di più. Fosse venuto prima, tante cose non sarebbero successe e penso anche alla vicenda dei maltrattamenti da parte del badante. Piano piano sta migliorando, ma chiaramente non sono miglioramenti eclatanti: sono piccole cose che solo una persona dentro questa situazione può capire e apprezzare. Prima papà con la sinistra riusciva a scrivere e a disegnare. Ora non più. Ma ci siamo sempre parlati con gli occhi».

A parlare è Ginevra Nuti, figlia del regista Francesco che da undici anni vive non autonomo e privo di parola. Francesco Nuti è uno che finisce tra le notizie del giorno per la sua storia, il suo talento e la sfortuna dei suoi ultimi anni ma di figli che parlano con gli occhi ai propri genitori e se ne fanno carico per il resto della vita qui, in Italia, ce ne sono migliaia anche se non li racconta nessuno.

Perché in fondo questo è un Paese (anzi, è diventato) in cui invecchiare o essere cronicamente malati è un peso che ricade sui figli. Vicende famigliari dolorose e irrisolvibili che rientrano nelle statistiche ma non influenzano il dibattito pubblico o politico. Tra i rovesciamenti di questo tempo ci sono i dolori centellinati di chi non riesce nemmeno a soffrire rumorosamente ma si usura un poco al giorno: le facce dell’assistenza le trovi nelle sale d’aspetto degli ambulatori sovraffollati e sono figli che si ritrovano a fare da badanti e da tutori ai genitori che per l’economia sociale sono diventati un fastidioso peso.

Non è quindi solo la storia di Ginevra. No. È la storia di molti che solo per un caso ieri ha trovato un po’ di spazio. Uno spazio piccolo che meriterebbe un’attenzione enorme.

Buon mercoledì.

Autore, attore, scrittore, politicamente attivo. Racconto storie, sul palcoscenico, su carte e su schermo e cerco di tenere allenato il muscolo della curiosità. Quando alcuni mafiosi mi hanno dato dello “scassaminchia” ho deciso di aggiungerlo alle referenze.