Per il 13 ottobre abbiamo lanciato il primo sciopero delle studentesse e degli studenti in alternanza scuola-lavoro, da quest’anno a regime, come rivolta contro lo sfruttamento che viene dall’anello debole della catena, per reagire di nuovo tutte e tutti insieme alle disuguaglianze di questa “economia della promessa” che insegna fin dai banchi di scuola a dover accettare come opportunità un’esperienza formativa che di formativo ha poco e niente. Magari nell’industria che devasta il territorio e fa ammalare intere famiglie, magari in una azienda che ha i lavoratori in cassa integrazione, magari in una azienda collusa con la mafia.
Lo abbiamo fatto al termine di due intensissime settimane, durante l’XI edizione del “Riot Village”, il tradizionale campeggio studentesco estivo che questo anno ha visto la partecipazione di oltre 2000 studenti, provenienti delle scuole e delle università da tutta Italia. All’interno del campeggio, oltre al mare ed all’irriverenza, si è espressa soprattutto la necessità di ritrovare punti di riferimento nel mondo che cambia.
Dalla sperduta provincia di Foggia – terra di caporalato e dequalificazione territoriale – si è discusso di tante cose: antimafia, quarta rivoluzione industriale, questione ecologica, trans-femminismo, antifascismo, disobbedienza civile al Decreto Minniti-Orlando, politiche migratorie, nuovi modelli di scuola ed università, nuova didattica, contrasto ai processi valutativi attuali, diritto allo studio, disuguaglianze, reddito, lavoro. Si è sperimentata l’autocoscienza maschile, si sono organizzati i corsi di educazione sessuale autogestita nelle scuole contro la retorica dell’ideologia gender, si sono rilanciate sperimentazioni mutualistiche e collettivi lgbtqia.
Tra le mille assemblee però è emersa con forza la necessità di riappropriarsi di un presente tutto da scrivere.
Tra post-verità, discussioni infinite su migranti e sicurezza, repressione, disuguaglianze in aumento, disoccupazione giovanile alle stelle, noi generazione nata e cresciuta con la crisi, cerchiamo chiavi di volta per interpretare il nostro ruolo storico attraverso l’azione collettiva. Nessuna strada è tracciata, nulla è più come prima.
Nell’interregno tra il vecchio che muore ed il nuovo che stenta a nascere, sentiamo addosso la responsabilità di uno sforzo di fantasia e ribellione agli schemi già scritti e falliti. Vediamo intorno a noi la politica e il sociale sgretolarsi, anno dopo anno, davanti ai nostri occhi. Lo spostamento a destra del senso comune e del dibattito pubblico, l’incapacità di incidere di un centro-sinistra che è sempre più privo di identità, l’incapacità della retorica dell’unità a sinistra che viene dai salotti di far breccia nel Paese: tutto ciò ci fa riflettere sul ruolo che deve perseguire ogni forma di agire collettivo.
Quello che cresce, nel frattempo, viene da molti definito “barbarie”, “odio sull’odio”, ri-assemblamento – sotto mentite spoglie – dello stesso potere che ha portato Trump al governo degli Stati uniti d’America. Ma a noi non va di assecondare la retorica dei “civili contro i barbari”, della grande alleanza contro i populismi, non ci va perché non vogliamo stare né con chi ha gestito il potere sulle nostre teste negli ultimi anni – ed è responsabile della crisi, del jobs act, delle riforme della scuola – né vogliamo stare dalla parte di chi orienta il dibattito pubblico sulla pelle della povera gente – e produce guerra tra poveri come strategia politica, interclassismo utile a mantenere lo status quo.
Noi stiamo con i barbari, ma contro la barbarie. Siamo noi stessi parte di quella povera gente che ha voglia di tornare finalmente a decidere e contare qualcosa, forse non “intellighenzia”, forse non intellettuale, ma figlia delle contraddizioni del nostro tempo. Per questo riteniamo ci sia ben poco da unire dall’alto, ma tanto da costruire nella società, per riarticolare le modalità con cui si organizza il potere dentro e fuori da istituzioni oramai svuotate del loro significato.
Ancora una volta c’è chi sfrutta e chi è sfruttato. Chi sfrutta, nello stesso modo con cui lo ha fatto nell’ultimo secolo, e chi invece indirizza la stanchezza verso gli sfruttatori, articolando il conflitto dall’alto verso il basso. La nostra parte, però, è sempre la stessa: quella degli sfruttati, di chi non decide, di chi ha poco mentre la ricchezza è sempre più polarizzata. Che questa parte si chiami o meno sinistra, non è il nodo importante. La cosa importante è riuscire a rispondere a questa” controrivoluzione passiva” con la vitalità della rabbia latente che c’è, con la potenza di ciò che si sta producendo anno dopo anno sui territori, con la costruzione di esperienze mutualistiche che prendano il meglio dal novecento e sappiano far tornare “pop” la solidarietà attiva, con la risposta collettiva che dal basso sfida le macerie e prova a costruire giorno dopo giorno attraverso il buono dell’innovazione sociale, della cooperazione, dell’attivismo.
Ancora eccheggia nelle nostre menti quel risultato del 4 dicembre, che ha visto l’80% dei giovani votare No. È stato un No contro un modello di organizzazione del potere che ci ha sempre escluso, è stato un No delle periferie, un No dei precari, un No degli studenti.
Per questo proponiamo delle sfide vere e radicali per rispondere a questi anni. Mentre nei talk show si scatena il dibattito sulle liceità o meno di salvare vite umane in mare, emerge invece il definitivo fallimento di Garanzia giovani, il più finanziato programma di politiche attive per il lavoro. Pochissima occupazione, ma aumento spropositato di tirocini, spesso usati come strumento di sostituzione semestrale di lavoratori veri e propri. Uno solo tra i mille esempi che potremmo fare delle modalità con cui per tutte e tutti noi lo sfruttamento è divenuta norma.
Ecco quindi che sfidare la politica e sporcarsi le mani noi stessi, per una generazione a cui non è stato concesso di poter credere in nulla, diventa una necessità, ben più importante del discutere di alleanze.
Dal nostro campeggio emergono con forza alcuni terreni di sfida. L’istruzione gratuita e di qualità, che garantisca a tutte e tutti il diritto allo studio, con l’abolizione delle tasse universitarie e dei cosiddetti “costi nascosti”, una proposta che descrive una idea di Paese, di impatto dei saperi sui territori, di capacità di costruire collettivamente la sfida della transizione tecnologica, ecologica e produttiva. Una proposta che si inserisce nella necessità di rivedere completamente l’organizzazione di scuole ed università, ritrovando il loro ruolo sociale per la ricerca e l’innovazione.
Oggi studiare non elimina affatto le disuguaglianze, sia per i problemi legati all’accesso a scuole ed università, sempre più escludenti, ma anche per le modalità con cui l’uscita dai luoghi della formazione determina l’accesso ad un lavoro solo povero e dequalificato.
Per questo è imprescindibile ribellarci all’idea della gerarchizzazione sociale sulla base delle competenze, nuova modalità con cui si articola l’idea dell’economia della conoscenza nella transizione economica. Un destino di precarietà espansiva amplificato dalla robotizzazione, apparentemente senza via d’uscita. Eppure anche queste contraddizioni nascondono opportunità di liberazione possibili con scelte politiche radicali sul piano del lavoro e del reddito di base.
Per questo lo sciopero del 13 ottobre: una protesta che parla di istruzione gratuita, di Mezzogiorno, parla di modello produttivo, parla di condizioni di lavoro, parla di chi ha di più e può sognare e di chi ha di meno e deve accettare a testa bassa. Una protesta che ambisce a coinvolgere l’opinione pubblica, i genitori, gli insegnanti, ma anche chi subisce lo sfruttamento a sua volta, seppur in forme diverse. Discutiamo e riflettiamo di tutto ciò, con la speranza che sia solo una miccia, che ci sia spazio per poter indirizzare questo dibattito elettorale prima che ci inghiotta e ci faccia morire di passioni tristi, con la speranza che i bisogni, i desideri e le aspettative collettive erodano spazio ai soliti temi di speculazione da talk show.
A molti le macerie fanno paura; anche a noi, non lo neghiamo. Ma queste macerie non sono le nostre. Siamo convinti che dalle vostre macerie si possa costruire qualcos’altro, che sia utile e necessario all’irruzione nella storia del suo soggetto protagonista per eccellenza, ma che solo ciò che è strumentale a questo scopo merita di continuare ad esistere. La verità, ed è bene ricordarcelo, è che gli anti establishment siamo noi, almeno dal 1917. Per questo affrontiamo questa fase di transizione con gli occhi al futuro, iniziando a pensare al “pre-”, piuttosto che al “post-” (post-fordismo, post-democrazia ecc.) di cui tanto abbiamo discusso in questi anni. Alzare la testa è quindi d’obbligo, armati di fantasia.
Martina Carpani è la coordinatrice nazionale di Rete della conoscenza