Da un lato c’è la scuola dei tagli, dei ministri con le loro riforme caotiche, del disagio che cresce di studenti e insegnanti. Dall’altro c’è quella inclusiva, un posto dove stare bene e studiare. Il maestro ed educatore di Giove (Terni) dice come dovrebbe essere la scuola che «serve per essere liberi nel pensiero»

Una intervista a Franco Lorenzoni, maestro ed educatore di Giove (Terni). È un’analisi approfondita della scuola italiana nel momento in cui si attendevano i decreti attuativi della legge 107.

«La verità è che in Italia, dall’introduzione della Media unica 55 anni fa, non si è mai investito in modo adeguato e coerente perché la scuola divenisse un reale volano di ascensione e rimescolamento sociale». È questa la sentenza di Franco Lorenzoni, maestro di Giove, vicino Terni, e educatore molto seguito, che ha fondato nel 1980 ad Amelia, in Umbria, la casa laboratorio Cenci, un centro di ricerca didattica che accoglie studenti e insegnanti da tutta Italia e li fa lavorare su temi scientifici, ecologici, e di inclusione. Ha scritto, Lorenzoni, testi come I bambini pensano grande, pubblicato da Sellerio nel 2014.
Franco Lorenzoni, quale idea di scuola emerge dopo quasi due anni di legge 107? Tenendo presente anche le deleghe in arrivo che ne attueranno alcune parti fondamentali?
La legge 107 è una legge che non ha mai avuto niente di organico. È un’accozzaglia di provvedimenti slegati tra loro, di cui alcuni molto criticabili, come l’introduzione di una presunta gerarchia di merito tra gli insegnanti, che non aiuta il miglioramento della scuola. Ci sono anche provvedimenti interessanti, come l’obbligatorietà della formazione in servizio – già introdotta dalla ministra Carrozza – e il rapporto scuola-lavoro, sulla cui attuazione ci sono però molti problemi da superare. Una legge, in sintesi, al cui interno si muovono spinte contraddittorie, che ha suscitato una forte opposizione per molte scelte sbagliate, che stanno ulteriormente peggiorando ora che si stanno definendo i decreti attuativi. L’assegnazione alle scuole di docenti di potenziamento, ad esempio, potrebbe facilitare una gestione più flessibile e autonoma di noi insegnanti. Ma sono necessarie due condizioni: che ci siano dirigenti scolastici capaci di una visione innovativa della didattica e che si vieti il loro utilizzo come supplenti o tappabuchi. Altrimenti, come in molte scuole accade, si sta creando un personale di seconda categoria, insoddisfatto perché male utilizzato.
Lo stesso problema lo si avverte anche con le deleghe che a fine mese il governo varerà dopo l’esame del Parlamento?
Nessuna delle deleghe è stata redatta da un comitato di esperti che se ne sia assunto la responsabilità. Per mesi c’è stato un ping pong tra il ministero e la Presidenza del Consiglio, con gruppi informali che si scioglievano e si ricomponevano secondo logiche imperscrutabili, dentro un ministero diretto dalla Giannini, che si è rivelata particolarmente incapace. Tutto questo ha prodotto testi di legge confusi, spesso cambiati in fretta e furia, come quello sulla valutazione, riscritto malamente nel corso dell’ultima notte.
Come?
C’era stata la proposta di abolire la bocciatura anche alla scuola media e di sostituire i voti decimali con le 5 lettere, accompagnando questo provvedimento con una revisione profonda dei criteri di valutazione. Una proposta in sintonia con la “spinta” europea che preme per un’educazione alle competenze e auspica cambiamenti significativi della didattica in direzione di una maggiore apertura alla realtà, che a mio avviso sarebbero giusto discutere nel merito e sperimentare. Ma, al solito, nel nostro Paese si parla sempre di riforme ma raramente si ha il coraggio di farle. Così, sia prima che dopo il referendum costituzionale, il governo ha avuto paura degli insegnanti, dell’opinione pubblica, di alcuni editorialisti di giornali che scrivono assurdità profondamente reazionarie e, all’improvviso, la ministra Fedeli ha deciso di fare marcia indietro, imponendo il fatto che i voti non si debbano toccare così come la possibilità di bocciare nella scuola di base, con una totale mancanza di visione e di coraggio. Tra l’altro c’è un’evidente contraddizione tra le diverse leggi esistenti. Le Indicazioni nazionali per la scuola dell’infanzia, elementare e media, divenute legge nel 2012 grazie a Marco Rossi Doria, allora sottosegretario, sono un documento importante, con premesse serie e impegnative. Ma per attuare ciò che lì c’è scritto, per costruire una scuola davvero inclusiva e fare in modo che tutti possano raggiungere obiettivi minimi fondamentali di conoscenza, l’intera gestione della scuola, a livello centrale e periferico, si dovrebbe fare carico dei grandi problemi esistenti e dovrebbe essere capace di prendere decisioni coraggiose e innovative.
Quindi oggi non si realizza una scuola inclusiva?
Siamo di fronte a un paradosso. L’Italia ha ricevuto dall’Onu lo scorso anno un riconoscimento come Paese che dispone le leggi più avanzate in tema di inclusione. Ma poi molte scelte politiche, invece di creare le condizioni perché queste buone leggi siano applicate, spesso rendono tutto più difficile. Va detto anche però, per onestà, che nelle attuali condizioni si osservano realtà molto diverse. Ci sono scuole in cui l’impegno individuale e collettivo a costruire con fatica buoni livelli di inclusione dà i suoi risultati e scuole in cui il forte attrito burocratico, le pigrizie mentali e la scarsa preparazione nel merito di troppi insegnanti danno luogo, nei fatti, a una scuola che emargina ed esclude chi ha più difficoltà. La scuola realmente inclusiva vive solo quando le leggi giuste e avanzate che ci sono vengono incarnate da insegnanti dotati di forte etica individuale e stimolate e messe a sistema da dirigenti capaci di andare oltre alla gestione del quotidiano e delle continue emergenze. Non sono poche queste realtà, ma restano tuttavia una minoranza. La politica scriteriata che porta a classi sempre più numerose insieme ai troppi accorpamenti tra scuole, sommata alla mancanza di un concorso per dirigenti continuamente rinviato con il conseguente uso massiccio di dirigenti reggenti, ha creato situazioni insostenibili. Oggi un dirigente scolastico deve svolgere un’enorme quantità di funzioni. Con l’introduzione degli “ambiti” decentrati, che assumono funzioni di coordinamento e gestione che erano state prima dei Provveditorati provinciali e poi degli Uffici Scolastici Regionali, il carico che grava sui dirigenti più attivi è abnorme. E invece le scuole hanno bisogno di dirigenti e gruppi capaci di orientare e promuovere la ricerca e l’innovazione didattica, senza la quale la scuola muore. Ma per guidare la crescita umana e professionale di noi insegnanti bisogna essere dotati di uno spessore culturale, una capacità di visione e del coraggio di sapere andare controcorrente che a molti manca. Così i maggiori investimenti in formazione in servizio, utili e necessari, rischiano ancora una volta di non valorizzare le risorse umane e culturali presenti nelle scuole, ma spesso sottovalutate. È soprattutto di un’autoriforma dal basso che la scuola ha bisogno. Ma chi è in grado di promuoverla oggi?
Cosa pensa delle accuse mosse alla scuola da alcuni opinionisti e nello specifico alla scuola primaria dalla famosa lettera dei 600 accademici?
Quella lettera è una vera porcheria. Partendo da problemi reali si prospettano soluzioni risibili. Come si fa a sostenere che la scuola diventerebbe più seria se chi insegna alle elementari venisse controllato dai docenti delle medie, che a loro volta dovrebbero essere controllati dai professori delle superiori? Poi naturalmente, poiché l’appello era rivolto a rettori ed accademici, si sono guardati bene dal mettere in discussione l’Università che, perlomeno riguardo alla formazione iniziale dei docenti, è forse il settore dell’istruzione che funziona di meno. Il tutto condito da nostalgie reazionarie davvero insopportabili. Come si fa a sostenere che Lorenzo Milani e Tullio De Mauro siano tra i responsabili del degrado della scuola di massa, quando sono stati tra i pochi grandi intellettuali del nostro Paese che si sono sporcati le mani in una relazione costante e appassionata con il mondo della scuola? La verità è che in Italia, dall’introduzione della Media unica 55 anni fa, non si è mai investito in modo adeguato e coerente perché la scuola divenisse un reale volano di ascensione e rimescolamento sociale.
Il problema fondamentale è la formazione?
Certo, il problema della formazione è cruciale, ma ancor più quello della responsabilità e dell’etica individuale, perché il buon funzionamento di un’istituzione si dà solo quando si intrecciano leggi adeguate e buone pratiche, che non possono non venire dal basso. Qui sta il nodo culturale che blocca l’Italia, perché molti si lamentano, anche a ragione, ma troppo pochi si assumono la responsabilità di testimoniare con persuasione che si può fare di buono a scuola, dando voce e dignità a bambini e ragazzi. Senza paura di esagerare penso che il modo in cui sono concepite e organizzate la maggioranza delle facoltà di Scienza della formazione è fortemente diseducativo. Andrebbero radicalmente ripensate, ma sul serio. Nei decreti attuativi che riguardano lo 0-6 si propone la laurea obbligatoria anche per le educatrici ed educatori dei nidi. Benissimo, ma sai cosa accadrà? Ci sarà un corri corri per accaparrarsi queste nuove cattedre, senza alcuna riflessione organica su che cosa significhi inventare una facoltà capace di formare un’educatrice dei nidi. L’Università in Italia sembra incapace di autoriflessione e si muove sempre per compartimenti stagni. Ciascuno pensa al suo: non c’è mai la capacità politica – nel senso più alto del termine – di affrontare le questioni culturali prendendole di petto dal punto di vista giusto. Si parla tanto di corruzione, ma l’Università è uno dei luoghi più corrotti, sia per il modo con cui vengono scelte e create le cattedre che per il modo, criticabilissimo, in cui si è scelto di organizzare la valutazione dei professori. Tutti ne paghiamo e ne pagheremo le conseguenze.
Ha scritto che la scuola primaria è un luogo delicatissimo, una sorta di “pronto soccorso culturale”. Da cosa dipende?
Ci sono due elementi da considerare. Da una parte il disagio crescente dei bambini, che dipende da una grande crisi della famiglia, accentuata in alcuni casi anche da condizioni di indigenza. La crisi però è anche psicologica: moltissimi adulti vivono male da molti punti di vista e questo si riflette nei disagi crescenti dei bambini. Lo dimostra la crescita esponenziale di bambine e bambini catalogati come di Bes (cioè con bisogni educativi speciali). E allora bisogna riflettere seriamente sul fatto che, se c’è un disagio forte nella società, l’infanzia è la prima vittima. Dall’altra parte c’è la grande questione dei figli degli immigrati. Bisogna distinguere se sono di prima o di seconda generazione, ma comunque per lavorare in classi con livelli di comprensione della lingua italiana molto diversi e saper valorizzare e dare dignità e ascolto a diverse idee e concezioni del mondo, ci vuole una grande preparazione e disponibilità umana. In generale va detto che sia la scuola dell’infanzia che la scuola primaria, complessivamente hanno reagito bene. Sono stati certamente i luoghi pubblici più accoglienti nei confronti degli immigrati, nonostante siano state le più penalizzate dal mostruoso taglio di oltre 8 miliardi fatto da Tremonti, quando faceva il ministro dell’Istruzione mascherato da Maria Stella Gelmini.
La scuola che insegna o la scuola che accoglie? Si possono fare entrambe le cose?
Non c’è da una parte una scuola accogliente, che cura le relazioni, e dall’altra una scuola seria e rigorosa che istruisce. Questa contrapposizione la creano ad arte opinionisti come Ernesto Galli della Loggia. La scuola diventa capace di costruire e diffondere cultura tanto più riesce ad essere accogliente, tanto più è in grado di curare le relazioni reciproche. Un buon rapporto con la letteratura, la scienza, la matematica o l’arte ce l’hai se abiti un luogo dove stai bene e dove giorno per giorno c’è chi costruisce e ci si prende cura di una composita comunità. Questo è il punto chiave. La scuola funziona quando ci sono insegnanti capaci di trasformare le classi in piccole comunità in cui ci si ascolta e ci si rispetta. In cui si lavora attivamente perché le differenze non si trasformino in forme palesi o velate di discriminazione. Conoscere il mondo, conoscere gli altri e incontrare se stessi sono processi che si alimentano vicendevolmente. Nella mia classe da due mesi stiamo ricercando intorno alla luna intrecciando scienza, disegno, poesia e introspezione personale. Mentre proviamo a studiare forme e movimenti del nostro astro, ci conosciamo di più tra noi. Bisogna farla finita con la vulgata interessata per cui l’abbassamento del livello culturale della società ha le sue radici nel ’68 e nei suoi figli. Sono oltre trent’anni che si insulta la cultura, che si impoveriscono i già scarsi luoghi di fruizione e promozione culturale nei nostri paesi, città e periferie. Rendiamo la vita impossibile alle biblioteche, ai teatri, non siamo in grado ci creare luoghi pubblici capaci di alimentare i nuovi linguaggi e la creatività delle giovani generazioni: di cosa stiamo parlando? Si è proposto, giustamente, di aprire le scuole al pomeriggio per ospitare attività di associazioni e realtà vive dei territori, ma poi non ci sono soldi per chi apre, per chi pulisce. La cura di una socialità non conflittuale dovrebbe essere la prima emergenza culturale a cui far fronte, ma poi, all’atto pratico, in ben pochi luoghi si agisce in questo senso con coerenza. La scuola è un organo dentro a un corpo sociale, non ce lo dimentichiamo mai.
A che cosa serve la scuola quindi?
A essere più liberi nel pensiero, ad avere più strumenti conoscitivi, ad aprirci e a imparare ad imparare dagli altri. Chi ci crede prova a lavorare perché la scuola di base sia il luogo privilegiato in cui ragazze e ragazzi acquistino fiducia nelle propria capacità di pensare in autonomia. Per noi insegnanti questo è un compito davvero impegnativo, perché bisogna andare controcorrente e batterci contro la semplificazione imperante. Eppure è proprio questo quello a cui penso quando parlo di una scuola che è un pronto soccorso culturale; mi riferisco a questo bisogno di democrazia da praticare, al diritto di articolare parole pensate, ragionate, che si arricchiscano «sfregando e limando i nostri cervelli contro quelli degli altri» come auspicava Montaigne, affrancandoci dai troppi monologhi che ammorbano il web. Piero Calamandrei sosteneva che la scuola deve essere un’incubatrice di vocazioni. Ma per esserlo dovremmo riuscire a dare a ciascuno lo spazio e la possibilità di scoprire quali contorni abbia il proprio carattere. In fondo a cosa servono le discipline? A scoprire le nostre inclinazioni più vitali e a capire qual è la strada migliore che possiamo imboccare per esplorare e scoprire il mondo. Viviamo in tempo particolarmente difficile e i bambini, fin da piccoli, sentono in vari modi il peso della grande crisi, del non lavoro. Questo orizzonte così chiuso non favorisce il desiderio e la fiducia nell’imparare. Per questo noi insegnanti siamo chiamati a contrastare con forza la generale de-alfabetizzazione, consapevoli che si tratta di remare contro corrente.
Voi insegnanti dovete dare certezza della conoscenza…
Il clima generale è contro chi ragiona e pensa in autonomia. Forse non ci sono dei complotti per tenere il popolo in stato di ignoranza, ma di fatto è questo che accade. Si restringono le opportunità di formazione personale di bambini e ragazzi e questo è un grave danno per tutti.

(da Left n.11 del 18 marzo)