Furono condannati alla sedia elettrica negli Usa. Accusati di omicidio durante una rapina senza prove. Una condanna politica promossa dal Ministro della Giustizia americano. Solo nel 1977 il governatore del Massachusetts ammisse le falle del processo e ne riabilitò la memoria

Il 23 agosto 1927 i due anarchici Sacco e Vanzetti furono condannati a morte negli Usa. Accusati di omicidio durante una rapina. Una condanna politica voluta dal Ministro della Giustizia americano. Solo nel 1977 il governatore del Massachusetts ammisse le falle del processo e ne riabilitò la memoria. A novant’anni da quella feroce ingiustizia l’articolo scritto da Riccardo Michelucci per Left

«Se non fosse per questi fatti, sarei potuto morire inosservato, sconosciuto, un fallimento. Ora non siamo un fallimento. Mai nella nostra intera vita potevamo sperare di fare così tanto lavoro per la tolleranza, per la giustizia, per la mutua comprensione tra gli uomini, come ora facciamo per accidente. Questa agonia è il nostro trionfo». Così scriveva poco prima di morire Bartolomeo Vanzetti, il cui nome era destinato a diventare – insieme a quello di Nicola Sacco – un simbolo immortale della lotta contro l’ingiustizia del potere e a mostrare al mondo il volto più spietato e brutale del capitalismo statunitense. Dopo la fine della Prima guerra mondiale, la crociata lanciata dal presidente Woodrow Wilson contro la “minaccia sovversiva” aveva preso di mira i socialisti, gli anarchici, gli stranieri e chiunque non fosse in qualche modo assimilato alla cultura dominante. Nel gennaio 1920, in soli cinque giorni, furono compiuti raid in decine di città statunitensi che portarono all’arresto o al fermo di circa diecimila attivisti politici. In un clima di caccia alle streghe senza precedenti, tra scioperi, scontri e manifestazioni di protesta, i due anarchici italiani diventarono i capri espiatori perfetti. Arrestati in un primo momento solo per possesso di armi e materiale considerato sovversivo, Sacco e Vanzetti furono poi accusati di una rapina e di un duplice omicidio, e sottoposti a un calvario giudiziario lungo sette anni. Il tragico epilogo della loro vicenda – raccontata magistralmente nel 1971 da uno splendido film di Giuliano Montaldo con Gianmaria Volonté – fu scritto dai giudici razzisti e corrotti che li mandarono a morte sulla sedia elettrica nell’agosto 1927, incuranti della totale assenza di prove e di una clamorosa testimonianza che li scagionava. Negli Stati Uniti la loro memoria sarebbe stata riabilitata ufficialmente solo cinquant’anni dopo, quando il governatore del Massachusetts Michael Dukakis riconobbe finalmente l’errore giudiziario e l’atrocità subita dai due immigrati italiani. Ben pochi, anche prima di quel gesto tanto doveroso quanto tardivo, continuavano a dubitare della loro innocenza. Eppure, per chiudere davvero quella tragica vicenda e consegnarla definitivamente alla storia, è sempre mancato un tassello fondamentale: l’analisi della dimensione ideologica di Sacco e Vanzetti, del loro pensiero e degli ideali che li portarono alla morte. Finora, il sacrosanto impegno per denunciare il sistema corrotto e discriminatorio che li portò al patibolo aveva fatto passare in secondo piano un elemento che risulta invece imprescindibile al fine di rendere piena giustizia ai due anarchici italiani. Una lacuna inspiegabile soprattutto nel nostro paese,  prima che un editore italiano (Claudiana) decidesse qualche anno fa di dare alle stampe le lettere che i due scrissero dal carcere ai loro familiari. Il volume Lettere e scritti dal carcere – a cura di Lorenzo Tibaldo – riproduce quanto fu pubblicato negli Stati Uniti subito dopo la loro morte, nel 1928, e racconta i lati più personali di Sacco e Vanzetti. Ma ancora più interessante appare Altri dovrebbero aver paura. Lettere e testimonianze inedite, il libro edito da Nova Delphi editore che racconta la dimensione intellettuale della loro militanza politica. Il merito di un lavoro che è andato a colmare un significativo vuoto storiografico è tutto dello studioso Andrea Comincini, che ha tradotto e curato la raccolta di lettere e testimonianze inedite custodite negli archivi universitari della Lilly Library di Bloomington, nell’Indiana. Si tratta di materiale che consente un’analisi approfondita del pensiero politico e delle radici culturali dei due anarchici. In particolare di Bartolomeo Vanzetti, il cui lungo epistolario con le due attiviste Mary Donovan e Alice Stone Blackwells rappresenta una testimonianza straordinaria dalla quale emerge chiaramente la sua volontà di far conoscere le irregolarità del processo, il suo convinto anticlericalismo e la sua convinta al bolscevismo. Vanzetti era un migrante di umili origini costretto a lavorare duramente fin dalla più giovane età, eppure fu sempre pervaso da una profonda tensione intellettuale intorno alla quale ruotò la sua coscienza politica. Scrive nel 1921: “lessi il Capitale di Marx, i lavori di Leone, di Labriola, il Testamento politico di Carlo Pisacane, i Doveri dell’uomo di Mazzini e molte altre opere dall’indole sociale … Mi schierai dalla parte dei deboli, dei poveri, degli oppressi, dei semplici e dei perseguitati […] Compresi che i monti, i mari, i fiumi chiamati confini naturali, si sono formati antecedentemente all’uomo, per un complesso di processi fisici e chimici, e non per dividere i popoli. […] Cercai la mia libertà nella libertà di tutti, la mia felicità nella felicità di tutti”. Assai meno corposa è la corrispondenza di Nicola Sacco, la cui consapevolezza politica avviene per sua stessa ammissione attraverso l’esperienza diretta: “Di idee politiche, nel lasciare il paese che mi vide nascere, credo di non averne avute, se togliete una certa passione per gli ideali che avevano avuto apostolo e agitatore melanconico Giuseppe Mazzini”. Le loro lettere assumono un valore ancora più forte e toccante se si pensa che entrambi, durante la loro lunga prigionia, furono costretti a scriverle in inglese (tranne quelle inviate ai familiari) e che il personale carcerario le sottoponeva a un rigido controllo censorio. Come spiega bene Valerio Evangelisti nella prefazione, finora Sacco e Vanzetti erano sempre stati descritti pensando a quello che diventarono, cioè due poveri immigrati vittime di un sistema corrotto e razzista, e mai per quello che erano stati, cioè due militanti anarchici che lottarono – e morirono – per i loro ideali.