L'economia in fibrillazione: oltre due milioni di europei lavorano in Gran Bretagna, tremano i settori alberghiero, della ristorazione e della manifattura. E 3300 sono i prodotti su cui l'Europa vuole la protezione. Tempi duri per Theresa May

Brexit o non Brexit? Brexodus. Gli accordi commerciali con l’Unione, il problema al confine alla riottosa Irlanda – che all’Europa deve la sua crescita e non ha intenzione di abbandonarla -, i lavoratori stranieri. Riguardano questi dilemmi economici e sociali i documenti della Brexitleak ottenuti dal the Guardian che riguardano l’uscita del Regno Unito dall’Unione: su quei fogli c’è anche la posizione del governo sulla migrazione, giudicata «completamente confusa, economicamente illetterata, un progetto per strangolare l’economia di Londra».

David Davis, segretario Brexit, adesso ha più pressione sulle spalle e forse di notte non dorme sereno, proprio come Michael Barnier, capo negoziatore per l’Unione Europa. La data d’addio tra il Vecchio Continente e la Gran Bretagna è fissata per il 29 maggio 2019. È di questo che stanno parlando oggi a Bruxelles ma «questa fuga di notizie rivela la crepa tra Europa e Regno Unito».

Le cifre: 3,300 è il numero dei copyright dei prodotti che l’Europa vuole proteggere, riguardano soprattutto il cibo. Ma non è questo il lato peggiore. Per l’Home Office, l’immigration policy dopo la Brexit, per le industrie sarà “catastrofica”: 2, 2 milioni di europei lavorano in Gran Bretagna e sono solo il 7 per cento della forza lavoro, ma alcuni settori dipendono completamente dai lavoratori migranti. Svolgono professioni che gli inglesi non farebbero mai, sono attivi nelle attività domestiche, dei trasporti, dello stoccaggio. Nell’industria manifatturiera, delle cave, della costruzione, della riparazione. E infine perderà per la Brexit soprattutto l’industria dell’accoglienza: in Gran Bretagna il 75 per cento dei camerieri è straniero e lo è anche il 25 per cento degli chef. Ogni anno le industrie dell’accoglienza- hotel, ristoranti, bar- assumono circa 60mila dipendenti extrabritannici.

Oltre a Davis e Barnier, anche la premier May di notte non dorme e non sogna. Il suo premierato scricchiola ogni giorno di più, ma lei continua a ripetere da mesi “I am no quitter”, non sono una che molla, facendo eco a quel “go on and on” della Thatcher nel 1987. L’unica altra donna premier della Gran Bretagna abbandonò la politica tre anni dopo, proprio mentre ripeteva che sarebbe andata avanti. Ma quell’ “on and on” non le portò fortuna. Né ne sta portando a Theresa, appena tornata dal viaggio in Giappone per dire a Shinzo Abe che il Regno Unito “sta spalla a spalla” con i nipponici contro l’aggressione missilistica della Corea del Nord. È andata a Kyodo, vecchia capitale imperiale, soprattutto per cementare i rapporti commerciali in Asia, rinegoziare i termini del business tra i due paesi, per fare insomma trade deals, accordi commerciali.

Oggi i media continuano a ribattere la notizia non confermata ufficialmente che il 30 agosto 2019, cioè tra quasi esattamente un anno, la May rassegnerà le sue dimissioni. Ma scegliere una data e confermarla significherebbe già rischiare di essere intralciati da un potenziale successore, diventare quella che nel mondo anglofono è chiamata “anatra zoppa”.

Insomma, in questo settembre, il glorioso Regno Unito assomiglia a quel Big Ben che non segna più l’ora esatta perché in ristrutturazione. Alcuni inglesi sono ancora di incapaci di credere a quello che è successo: lasceranno l’Europa. Altri notano che i politici non fanno seguire le azioni alle parole. “Stiamo ripulendo il casino dei laburisti”, è il ritornello che arriva dal lato tory, che risuona «finché le orecchie degli elettori non sanguinano», scrive Owen Jones sul Guardian. «I tories hanno fatto un incubo e ci siamo tutti chiusi dentro». Il referendum è stato fatto non nell’interesse nazionale, ma perché «Cameron aveva parlamentari irritanti e l’Ukip con cui fare i conti. La premier che gli è succeduta per estinguere l’opposizione, ha indetto elezioni rapide e, al contrario, ha estinto solo la sua autorità».

La Britain dopo la Brexit cosa sarà? Un Brexodus di certo. Nessuno sta fornendo risposte adeguate e ad essere sommersa dalle critiche è il capo dello Stato insieme al ministro del commercio estero, l’euroscettico Liam Fox. Vince Cable, leader liberale democratico, lo ha ridicolizzato dicendo che questa è una “cut and paste Brexit”, una Brexit copia e incolla: «ai Brexiters era stato promesso un nuovo inizio di accordi commerciali nel mondo. Invece che fare jet set intorno al globo, Liam Fox poteva pure starsene in una stanza con una fotocopiatrice».