In occasione dell'anniversario della morte di Salvador Allende pubblichiamo alcuni brani tratti da "Figli rubati. L'Italia, la Chiesa e i desaparecidos". Per gentile concessione di L'Asino d'oro edizioni

Con il nome di battaglia ‘Joaquín’, Julio Soto Céspedes era uno dei sei autisti personali di Allende. L’11 settembre 1973 aveva 24 anni ed era un uomo del Gap (Grupo de amigos del presidente), un nucleo scelto di giovani militanti del Partito socialista, la scorta più fidata del “Dottore’ – così lo nomina per tutta l’intervista che mi ha rilasciato a Roma in occasione della sua testimonianza al processo Condor. È lui che portò il presidente alla Moneda la mattina del golpe a bordo della famosa Fiat 125 scura. «Chiesi al Dottore cosa stesse accadendo», racconta Soto. «‘Si è insubordinata la marina’, rispose. ‘Corri, dobbiamo arrivare alla Moneda prima della marina’. In auto non abbiamo più parlato. Impiegai meno di dieci minuti per coprire i 15 chilometri tra casa sua e il palazzo. Siamo arrivati verso le 7:20 e sembrava tutto calmo». Già il 29 giugno c’era stato un tentativo di golpe, ma allora le stesse forze armate guidate dal generale Carlos Prats erano intervenute per sedarlo. Poi erano venuti gli scioperi generali, come quello dei camionisti che aveva paralizzato il Cile affamando le città prive di rifornimenti. Allende si rivolse al paese via radio, chiedendo ai lavoratori di recarsi nelle fabbriche e di attendere istruzioni.

Nella Moneda tutti erano pronti a combattere fino all’ultimo, armati alla meglio con quanto avevano potuto trovare in quelle ultime ore. «‘Combattiamo per difendere la democrazia, la Costituzione e lo Stato di diritto. Chi vuole arrendersi ora può farlo’, ci disse Allende una volta dentro il palazzo. Eravamo in 34, nessuno depose le armi», ricorda Soto. «Secondo un piano prestabilito ci dividemmo in due gruppi. Io mi appostai con altri sette sul tetto del ministero dei Lavori pubblici che è molto più alto della Moneda. Avevamo un lanciagranate, un fucile mitragliatore e degli Ak47. Da lì sopra avremmo potuto colpire chiunque». L’idea di Allende era di resistere fino a quando il popolo cileno non avesse preso coscienza della gravità degli eventi. Ma la situazione in breve precipitò. Dopo pochi minuti arrivò la fanteria inviata dal generale Augusto Pinochet, nominato comandante dell’esercito il 23 agosto 1973 dallo stesso presidente socialista. I soldati cominciarono a sparare. I difensori del palazzo risposero al fuoco. Poi però giunsero anche i carri armati in appoggio dei golpisti; infine gli aerei.

«Scendevano verso la Moneda per sganciare le bombe, ci passavano davanti. Non siamo riusciti ad abbatterli. Eravamo stati addestrati per difendere il Dottore in caso di attentato, non per combattere una guerra. Pinochet era riuscito a mettere insieme esercito, marina e aviazione». La voce di ‘Joaquín’ cambia tono. «Se devi sventare un golpe con un fucile, non sparare mai a un aereo mirando alla fiancata. Ricorda: devi colpirlo davanti, dove c’è il pilota». Mentre sibila questa frase mi guarda fisso negli occhi e il suo volto si indurisce per un brevissimo istante; capisco che non sta facendo dell’ironia. In quel momento morì la democrazia cilena e con essa il presidente socialista e i suoi compagni. Dopo il suo ultimo messaggio alla nazione, poco prima che il generale Javier Palacios ordinasse l’assalto finale, i golpisti telefonarono ad Allende offrendogli un aereo per andare in esilio. Lui rifiutò urlando: «Traditori». Quindi intimò ai suoi di arrendersi e li salutò. Imbracciando il mitra ricevuto in regalo da Fidel Castro si chiuse nel suo studio privato e si sparò. «Forse pensò che in questo modo ci avrebbero risparmiato. Purtroppo non è andata così. Se i miei compagni avessero intuito cosa li aspettava, non si sarebbero lasciati ammanettare. Sarebbero morti combattendo».

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Tra le prime vittime del golpe cileno c’è un giovane di origini piemontesi, Juan José Montiglio Murúa. La moglie, Rina Belvederessi, e i figli Tamara e Alejandro chiedono giustizia in virtù della norma del codice di procedura penale che consente allo Stato italiano di processare anche in contumacia i presunti responsabili di crimini contro l’umanità compiuti all’estero nei confronti di cittadini italiani. «A testimoniare», racconta Tamara Montiglio, «abbiamo chiamato tra gli altri la presidente del Senato cileno Isabel Allende Bussi, figlia di Salvador e di Hortensia Bussi, che lasciò la Moneda pochi istanti prima dell’attacco su ordine del padre». Nato a Santiago del Cile nel 1949, Montiglio era un militante del Partito socialista e capo del Gap (Grupo de amigos del presidente), la scorta personale e più fidata di Allende, con il nome in codice ‘Anibal’. «Fu arrestato l’11 settembre dalle milizie di Pinochet», prosegue Tamara, «ed è stato visto insieme ad altri prigionieri alla caserma Tacna, dove si presume che sia stato ucciso pochi giorni dopo insieme ad altri Gap prelevati al palazzo presidenziale». In Cile c’è un processo che riguarda la sua vicenda iniziato circa vent’anni fa. Ma Rina e i due figli non hanno mai testimoniato di persona prima di oggi in un’aula giudiziaria sull’omicidio di Montiglio. «Per ora», prosegue Tamara, «ci sono state solo indagini, nessuna udienza vera e propria. Molto probabilmente la sentenza di Roma arriverà prima di quella cilena e per questo la nostra famiglia è molto grata allo Stato italiano». «Montiglio fu imprigionato, torturato, fucilato a colpi di mitra e fatto saltare in aria con delle bombe a mano nella caserma Tacna insieme ad altri Gap dai militari comandati da Rafael Francisco Ahumada Valderrama. È uno dei 3.000 desaparecidos cileni: il suo corpo non è mai stato ritrovato», ricostruisce Soto.

Nel 1979 Pinochet, seguendo l’esempio della dittatura argentina, con l’operazione ‘Ritiro dei televisori’ ordinò di far sparire i resti dei prigionieri politici, riesumandoli e gettandoli in mare. Qualche frammento osseo rimase comunque nella fossa comune della Tacna e grazie all’esame del Dna alcune spoglie sono state restituite alle rispettive famiglie. Anibal non è tra queste. «Per identificarlo», spiega Tamara Montiglio, «occorrerebbe trovare mia nonna che lo aveva partorito in una relazione extraconiugale. Si sa solo che potrebbe avere il cognome Venezia. Poiché il Dna mitocondriale di una persona si ricava da quello della madre, la questione resta irrisolta. Tant’è che mia mamma in Cile risulta ancora sposata con lui. Non è considerata una vedova».

Tamara nel 1973 aveva meno di 2 anni e come suo fratello ha conosciuto la vera storia di suo padre solo a ottobre del 1988. «Per proteggerci eravamo sempre stati tenuti all’oscuro. Il 5 ottobre 1988 ci fu il plebiscito che si è concluso con la vittoria dei ‘no’ al prolungamento del mandato di Pinochet per altri otto anni. Vennero pertanto indette nuove elezioni: fu l’inizio della fine della dittatura che è caduta l’anno dopo. Nei giorni precedenti, poiché iniziavano a circolare più notizie del solito anche sugli anni del golpe, mia madre e mia nonna pensarono che avremmo potuto vedere qualche foto o leggere qualche articolo su papà e i suoi compagni, quindi decisero di raccontare a me e a mio fratello Alejandro di un anno più grande che cosa era successo alla nostra famiglia l’11 settembre 1973». La storia comincia una settimana prima. «Il 4 settembre il governo socialista aveva assegnato ai miei genitori una casa popolare. Fino a quel momento avevamo vissuto con i miei nonni ma terni. Per tre giorni papà e mamma sono stati a pulire, il 7 settembre siamo andati a vivere tutti insieme nella nuova casa. Pochi giorni dopo ci venne improvvisamente a prendere mio nonno con una zia. Insieme a mamma siamo tornati a casa dei miei nonni. Avevo 2 anni, ci sono rimasta fino a 25». La vita della famiglia Montiglio cambiò bruscamente. «Nonno era dentista, durante la dittatura abbiamo vissuto in un quartiere borghese e con mio fratello abbiamo studiato nella scuola italiana. Non abbiamo mai sospettato nulla. Mia madre negli anni ci raccontò tanti particolari della vita e del carattere di papà. Sapevamo che era stato un dirigente dei giovani studenti socialisti, che gli piaceva ascoltare gli Inti-Illimani. A poco a poco ci mostrava come era Montiglio ma senza mai arrivare a raccontare qualcosa che potesse far pensare alla sua presenza a fianco di Allende nel giorno della fine. Ci diceva che era morto per una brutta malattia, la tenia».

Una metafora che Rina non scelse a caso per alludere al regime fascista di Pinochet. «Poi», prosegue Tamara, «quel giorno del 1988 finalmente ho saputo. Lei ha cominciato a raccontare come aveva conosciuto papà all’università. Che prima erano amici e che dopo è nato l’amore. E poi che lui era molto più che un semplice studente socialista impegnato politicamente. Nel 1970 il partito gli aveva chiesto di entrare nel dispositivo del Gap per fare da scorta ad Allende. Lui lo raccontò a mamma quando aveva già preso la decisione di accettare. Entrò nella scorta il 23 novembre 1970, due giorni dopo è nato mio fratello Alejandro. Quando ci disse come è morto papà sono stata male. Il colpo è stato durissimo. Ricordo però che in quel momento mi sono resa conto di averlo sempre saputo. I racconti di mamma, alcune sue conversazioni a mezza bocca con la Figli rubati nonna. È stato come se improvvisamente si mettessero insieme tanti frammenti di un puzzle». Secondo Julio Soto, la ferocia con cui sono stati eliminati Anibal e gli altri compagni del Gap alla caserma Tacna è stata una conseguenza dal fatto che 34 persone sono riuscite a tener testa a un attacco militare coordinato per quasi otto ore. «Io mi sono salvato confondendomi tra il personale del ministero durante l’evacuazione. A fine settembre fui arrestato e condannato a cinque anni di carcere. Dopo due anni di torture, il 25 settembre 1975 la pena mi venne commutata in esilio». Una volta ‘libero’, Julio Soto è partito per il Regno Unito per poi trasferirsi in Svezia dove il premier socialista Olof Palme garantiva l’asilo ai militanti sudamericani. Infine si è stabilito in Germania, a Berlino. Qui si è innamorato di una donna tedesca, ha svolto molti lavori ed è stato consulente di Baltasar Garzón nell’inchiesta che si concluse nel 1998 con il mandato d’arresto internazionale emesso dal giudice spagnolo contro Pinochet. Oggi Joaquín è un pensionato. «Viviamo tra la Svezia e la parte est di Berlino, nostra figlia studia medicina. Ogni tanto ritorno in Cile dove non ho potuto rimettere piede fino al 1987, ma non mi trovo granché bene. C’è una democrazia molto fragile che ancora poggia sulla Costituzione scritta da Pinochet. Con il caso Montiglio a Roma per la prima volta al mondo in un’aula giudiziaria si parla degli eventi accaduti nel giorno del colpo di Stato cileno. Furono compiuti crimini contro l’umanità, ma nel mio paese la polizia fa solo finta di indagare». «15.516: sono i giorni passati dall’omicidio di mio padre », ha scritto in un sms dal Cile il figlio di Montiglio, Alejandro, all’avvocato di parte civile Andrea Speranzoni al termine della prima udienza romana, il 12 febbraio 2015.

 

In foto: Tamara Paola Montiglio Belvederessi durante la sua testimonianza al Processo Condor di Roma, (Lilia Di Monte ©)

Scrivevo già per Avvenimenti ma sono diventato giornalista nel momento in cui è nato Left e da allora non l'ho mai mollato. Ho avuto anche la fortuna di pubblicare articoli e inchieste su altri periodici tra cui "MicroMega", "Critica liberale", "Sette", il settimanale uruguaiano "Brecha" e "Latinoamerica", la rivista di Gianni Minà. Nel web sono stato condirettore di Cronache Laiche e firmo un blog su MicroMega. Ad oggi ho pubblicato tre libri con L'Asino d'oro edizioni: Chiesa e pedofilia. Non lasciate che i pargoli vadano a loro (2010), Chiesa e pedofilia, il caso italiano (2014) e Figli rubati. L'Italia, la Chiesa e i desaparecidos (2015); e uno con Chiarelettere, insieme a Emanuela Provera: Giustizia divina (2018).