L'ultima volta che ci hanno provato, è andato tutto storto. Quando hanno pianificato l'assassinio della leadership del Nord, in Sud Corea nulla è andato come doveva. Erano gli anni '70 e i comandanti nordcoreani progettavano di assaltare il palazzo presidenziale nemico a Seul. Intanto, i vicini del sud addestravano uomini - acrobati, vagabondi, lustrascarpe, galeotti in cerca di redenzione- per attraversare il confine a nord e tagliare la gola del leader, all'epoca Kim Il Sung. La missione abortì, seguì un ammutinamento: acrobati e lustrascarpe uccisero chi li addestrava e si fecero saltare in aria nella capitale sudcoreana. Non a nord. Erano membri dell'Unità 684: la chiamavano così.

Questa è la storia della vecchia “unità decapitazione” che doveva uccidere suo nonno, ma ora Kim Jong-un ne ha una tutta per lui. È quella che sudcoreani e americani alleati oltre confine, dopo le esercitazioni militari congiunte, chiamano la “decapitation unit”, che dovrebbe attraversare il confine di notte, compiere un raid, anche aereo, usando elicotteri e penetrare nell'impenetrabile per uccidere Kim.

L'ultimo drammatico passo dell'escalation nella penisola è il missile di Pyongyang che ha sorvolato il Giappone e l'isola di Hokkaido prima di cadere nell'oceano Pacifico ieri. È stato lanciato alle 6.57 ora locale ed è sprofondato negli abissi alle 7: 16 del mattino. Durante quei minuti, in cui viaggiava a 3.700 km orari, a 770 km di altezza, l'America e il Giappone hanno parlato a telefono con i paesi confinanti e l'hanno definita una “provocazione intollerabile”.

Per quanto raro sia che un governo annunci pubblicamente la sua strategia a quello nemico, il sud è riuscito nell'intento di innervosire il nord, che continua a far aumentare il suo arsenale. Tutto questo ha un fine: far si che Kim accetti il dialogo con il presidente sudcoreano appena eletto, Moon Jae In. Far si che Kim tema per la sua vita e non quella della sua nazione, è un deterrente che potrebbe spingerlo ad intraprendere una soluzione diplomatica nell'intricata escalation militare e nucleare della penisola.

L’ultima volta che ci hanno provato, è andato tutto storto. Quando hanno pianificato l’assassinio della leadership del Nord, in Sud Corea nulla è andato come doveva. Erano gli anni ’70 e i comandanti nordcoreani progettavano di assaltare il palazzo presidenziale nemico a Seul. Intanto, i vicini del sud addestravano uomini – acrobati, vagabondi, lustrascarpe, galeotti in cerca di redenzione- per attraversare il confine a nord e tagliare la gola del leader, all’epoca Kim Il Sung. La missione abortì, seguì un ammutinamento: acrobati e lustrascarpe uccisero chi li addestrava e si fecero saltare in aria nella capitale sudcoreana. Non a nord. Erano membri dell’Unità 684: la chiamavano così.

Questa è la storia della vecchia “unità decapitazione” che doveva uccidere suo nonno, ma ora Kim Jong-un ne ha una tutta per lui. È quella che sudcoreani e americani alleati oltre confine, dopo le esercitazioni militari congiunte, chiamano la “decapitation unit”, che dovrebbe attraversare il confine di notte, compiere un raid, anche aereo, usando elicotteri e penetrare nell’impenetrabile per uccidere Kim.

L’ultimo drammatico passo dell’escalation nella penisola è il missile di Pyongyang che ha sorvolato il Giappone e l’isola di Hokkaido prima di cadere nell’oceano Pacifico ieri. È stato lanciato alle 6.57 ora locale ed è sprofondato negli abissi alle 7: 16 del mattino. Durante quei minuti, in cui viaggiava a 3.700 km orari, a 770 km di altezza, l’America e il Giappone hanno parlato a telefono con i paesi confinanti e l’hanno definita una “provocazione intollerabile”.

Per quanto raro sia che un governo annunci pubblicamente la sua strategia a quello nemico, il sud è riuscito nell’intento di innervosire il nord, che continua a far aumentare il suo arsenale. Tutto questo ha un fine: far si che Kim accetti il dialogo con il presidente sudcoreano appena eletto, Moon Jae In. Far si che Kim tema per la sua vita e non quella della sua nazione, è un deterrente che potrebbe spingerlo ad intraprendere una soluzione diplomatica nell’intricata escalation militare e nucleare della penisola.