«Vengo dalla dittatura del Cile ed è assurdo che in un Paese democratico abbia dovuto aspettare di compiere 33 anni per poter votare per la prima volta». È molto amareggiata Paula Baudet Vianco, del Comitato Italiani senza cittadinanza, per l’ennesimo rinvio all’approvazione della legge sul diritto di cittadinanza (altrimenti detta “ius soli temperato”). Amareggiata, ma non arrendevole. «Aspettando la riforma sulla cittadinanza molti di noi sono diventati adulti, genitori. I politici devono trovare il coraggio e i voti necessari per l’approvazione dello ius soli, è il loro lavoro». La legge per il riconoscimento della cittadinanza ai figli nati in Italia da cittadini stranieri è da mesi al centro di un acceso dibattito politico ed è diventata oggetto di animate discussioni e strumentalizzazioni, tipiche di ogni campagna elettorale. Si tratta di una riforma della legge del ’92, che non intacca il principio di naturalizzazione a cui accedono i residenti adulti, ma solo i bambini e i giovani entro i diciotto anni. Non si tratta di svendere la cittadinanza italiana o regalarla a tutti. Non si reclama uno ius soli assoluto come negli States o in Australia, dove è sufficiente nascere sul suolo nazionale per diventare cittadini. In pratica, l’attuale legge prevede che un bambino nato in Italia da genitori stranieri resti straniero sino ai diciotto anni, dopodiché può diventare cittadino italiano presentando la domanda entro il diciannovesimo anno di età. La domanda può essere respinta se il soggetto non ha risieduto continuativamente per diciotto anni sul suolo italiano, se non ha tutti i documenti dalla madre patria, tra cui la fedina penale pulita richiesta anche ai minorenni, o se non ha potuto versare contributi per almeno tre anni consecutivi. Anche chi arriva in Italia da minorenne resta straniero fino alla maggiore età e può naturalizzarsi dopo aver presentato domanda. La stessa può essere respinta se il giovane non ha risieduto continuativamente in Italia per dieci anni, se mancano documenti concessi dal Paese d’origine e se non ha versato i contributi per tre anni consecutivi. Se entrasse in vigore lo ius soli temperato, i bambini nati in Italia da genitori stranieri con carta di soggiorno o un permesso di lungo periodo possono diventare subito italiani su richiesta dei genitori o presentando essi stessi domanda al compimento del diciottesimo anno. Lo ius culturae, invece mette sullo stesso piano bambini nati in Italia da genitori stranieri e minori arrivati con la famiglia entro i dodici anni. Se la riforma entrasse in vigore, questi bambini potrebbero diventare cittadini italiani dopo aver completato con profitto un ciclo di studi di cinque anni o dopo aver completato un corso di formazione professionale almeno triennale. Nel caso in cui il minore straniero sia arrivato in Italia dopo il dodicesimo anno di età, può diventare italiano dopo sei anni di residenza e dopo aver completato un ciclo di studi. Rispetto alla proposta di riforma sono state avanzate dai detrattori molte argomentazioni che non hanno però alcun fondamento. Si è parlato, ad esempio, di islamizzazione e di sostituzione etnica in Italia, ma i numeri provano il contrario. Secondo i dati della Fondazione Moressa, il 44% dei bambini interessati dalla riforma sono cristiani, 16,1% cattolici o protestanti e 28% ortodossi. I musulmani sono circa un terzo, il 38,4%. Per quanto riguarda i Paesi di provenienza, ben 157mila tra gli 814 mila bambini interessati dalla riforma sono rumeni, seguiti da 111mila albanesi, 102mila marocchini, 45mila cinesi, 26mila filippini, 25mila indiani, 25mila moldavi, 19mila ucraini, 19mila pakistani e 18mila tunisini. Niente arabistan dunque, niente svendita dell’italianità. Per migliaia di giovani in attesa, lo stop all’approvazione della riforma è stata una grande delusione. «Abbiamo appreso la notizia mentre eravamo in sit in a Roma, lo scorso 12 settembre», racconta Marwa Mahmoud, membro del Coordinamento nazionale nuove generazioni italiane. «Per noi è stato l’ennesimo tradimento, ci siamo sentiti lasciati soli in una battaglia che è soprattutto di civiltà. Siamo molto delusi da questa politica che sacrifica il presente e il futuro di oltre 800mila bambini in nome dei consensi elettorali. Continueremo il nostro impegno per far comprendere la reale natura della riforma. Non vogliamo più che ci siano bambini che si sentano discriminati. I bambini devono avere tutti gli stessi diritti e la stessa dignità, non possono subire il trauma di un rifiuto, di non essere accettati, di sentirsi diversi». «La politica non può avere paura dei bambini, né dei risultati elettorali. Deve avere il coraggio della verità e del cambiamento», commenta Mohamed Rmaily, tra i fondatori del comitato Italiani senza cittadinanza. «Il 13 ottobre, in occasione del secondo anniversario della presentazione della riforma alla Camera, saremo di nuovo in piazza per ribadire le nostre ragioni. Solleciteremo i politici a prendere una decisione che cambierebbe positivamente la vita di migliaia di bambini che sono già in tutto e per tutto italiani, ma che la burocrazia considera ancora stranieri».

«Vengo dalla dittatura del Cile ed è assurdo che in un Paese democratico abbia dovuto aspettare di compiere 33 anni per poter votare per la prima volta». È molto amareggiata Paula Baudet Vianco, del Comitato Italiani senza cittadinanza, per l’ennesimo rinvio all’approvazione della legge sul diritto di cittadinanza (altrimenti detta “ius soli temperato”). Amareggiata, ma non arrendevole. «Aspettando la riforma sulla cittadinanza molti di noi sono diventati adulti, genitori. I politici devono trovare il coraggio e i voti necessari per l’approvazione dello ius soli, è il loro lavoro».

La legge per il riconoscimento della cittadinanza ai figli nati in Italia da cittadini stranieri è da mesi al centro di un acceso dibattito politico ed è diventata oggetto di animate discussioni e strumentalizzazioni, tipiche di ogni campagna elettorale. Si tratta di una riforma della legge del ’92, che non intacca il principio di naturalizzazione a cui accedono i residenti adulti, ma solo i bambini e i giovani entro i diciotto anni. Non si tratta di svendere la cittadinanza italiana o regalarla a tutti. Non si reclama uno ius soli assoluto come negli States o in Australia, dove è sufficiente nascere sul suolo nazionale per diventare cittadini.

In pratica, l’attuale legge prevede che un bambino nato in Italia da genitori stranieri resti straniero sino ai diciotto anni, dopodiché può diventare cittadino italiano presentando la domanda entro il diciannovesimo anno di età. La domanda può essere respinta se il soggetto non ha risieduto continuativamente per diciotto anni sul suolo italiano, se non ha tutti i documenti dalla madre patria, tra cui la fedina penale pulita richiesta anche ai minorenni, o se non ha potuto versare contributi per almeno tre anni consecutivi. Anche chi arriva in Italia da minorenne resta straniero fino alla maggiore età e può naturalizzarsi dopo aver presentato domanda. La stessa può essere respinta se il giovane non ha risieduto continuativamente in Italia per dieci anni, se mancano documenti concessi dal Paese d’origine e se non ha versato i contributi per tre anni consecutivi. Se entrasse in vigore lo ius soli temperato, i bambini nati in Italia da genitori stranieri con carta di soggiorno o un permesso di lungo periodo possono diventare subito italiani su richiesta dei genitori o presentando essi stessi domanda al compimento del diciottesimo anno. Lo ius culturae, invece mette sullo stesso piano bambini nati in Italia da genitori stranieri e minori arrivati con la famiglia entro i dodici anni. Se la riforma entrasse in vigore, questi bambini potrebbero diventare cittadini italiani dopo aver completato con profitto un ciclo di studi di cinque anni o dopo aver completato un corso di formazione professionale almeno triennale. Nel caso in cui il minore straniero sia arrivato in Italia dopo il dodicesimo anno di età, può diventare italiano dopo sei anni di residenza e dopo aver completato un ciclo di studi.

Rispetto alla proposta di riforma sono state avanzate dai detrattori molte argomentazioni che non hanno però alcun fondamento. Si è parlato, ad esempio, di islamizzazione e di sostituzione etnica in Italia, ma i numeri provano il contrario. Secondo i dati della Fondazione Moressa, il 44% dei bambini interessati dalla riforma sono cristiani, 16,1% cattolici o protestanti e 28% ortodossi. I musulmani sono circa un terzo, il 38,4%. Per quanto riguarda i Paesi di provenienza, ben 157mila tra gli 814 mila bambini interessati dalla riforma sono rumeni, seguiti da 111mila albanesi, 102mila marocchini, 45mila cinesi, 26mila filippini, 25mila indiani, 25mila moldavi, 19mila ucraini, 19mila pakistani e 18mila tunisini. Niente arabistan dunque, niente svendita dell’italianità.

Per migliaia di giovani in attesa, lo stop all’approvazione della riforma è stata una grande delusione. «Abbiamo appreso la notizia mentre eravamo in sit in a Roma, lo scorso 12 settembre», racconta Marwa Mahmoud, membro del Coordinamento nazionale nuove generazioni italiane. «Per noi è stato l’ennesimo tradimento, ci siamo sentiti lasciati soli in una battaglia che è soprattutto di civiltà. Siamo molto delusi da questa politica che sacrifica il presente e il futuro di oltre 800mila bambini in nome dei consensi elettorali. Continueremo il nostro impegno per far comprendere la reale natura della riforma. Non vogliamo più che ci siano bambini che si sentano discriminati. I bambini devono avere tutti gli stessi diritti e la stessa dignità, non possono subire il trauma di un rifiuto, di non essere accettati, di sentirsi diversi».

«La politica non può avere paura dei bambini, né dei risultati elettorali. Deve avere il coraggio della verità e del cambiamento», commenta Mohamed Rmaily, tra i fondatori del comitato Italiani senza cittadinanza. «Il 13 ottobre, in occasione del secondo anniversario della presentazione della riforma alla Camera, saremo di nuovo in piazza per ribadire le nostre ragioni. Solleciteremo i politici a prendere una decisione che cambierebbe positivamente la vita di migliaia di bambini che sono già in tutto e per tutto italiani, ma che la burocrazia considera ancora stranieri».