Il 23 settembre manifestazione nazionale a Torrita di Siena. Contro la proposta di legge presentata al Senato che prevede la fusione dei comuni sotto i 10mila abitanti. Per le regioni “disobbedienti” dimezzati i fondi statali

L’«elevata frammentarietà dei comuni italiani» proprio non va giù ai parlamentari, di qualsiasi schieramento. Gli 8mila comuni risultano troppi e ingombranti. Dopo il ddl Lodolini (Pd) che prevedeva la fusione dei comuni sotto i 5mila abitanti, ritirato dopo una protesta vivace dei sindaci e dei comitati spontanei sorti in tutta Italia, adesso è in ballo un’altra proposta di legge, presentata l’8 marzo 2017, questa volta targata Ap con primo firmatario Marcello Gualdini. Il ddl S 2731 si trova adesso in Commissione Affari costituzionali del Senato e “supera” il ddl presentato da Emanuele Lodolini. In questo nuovo testo di legge si prevede la fusione di centri che non raggiungono il numero di 10mila abitanti, con l’unico obiettivo: «ridurre l’elevata frammentarietà dei comuni italiani». Se entro il 1° gennaio 2020 ciò non dovesse avvenire, la regione che non ha provveduto alla fusione obbligatoria subirà un taglio del 50% dei trasferimenti statali, esclusi però, per fortuna, la sanità e i trasporti.
Come era accaduto per il ddl Lodolini è di nuovo partita la mobilitazione dal basso. I piccoli comuni non ci stanno a queste scelte obbligate. Non convince il motivo che sottende la proposta di legge, e cioè l’ottimizzazione dei servizi esistenti. La“sperimentazione” già avviata da alcuni anni con le unioni dei comuni, per esempio, non ha portato quei benefici che si pensava potessero arrivare. La stessa Corte dei Conti nella relazione sulla gestione finanziaria degli enti locali pubblicata all’inizio del 2017 e relativa al 2015 solleva alcune critiche alle modalità della sperimentazione delle unioni. Anche i sindaci sono scettici e sostengono che con le unioni dei comuni si sono creati organismi terzi che fanno diventare la gestione degli enti locali ancora più complicata. «Ma visto che l’unione dei comuni non funziona, non si può passare direttamente alla fusione», dice Marco Buselli, sindaco di Volterra che a marzo del 2016 ha ospitato la giornata dell’Orgoglio Comune con l’adesione di 4700 sindaci. Il suo comune non è toccato dall’operazione prevista dall’ultimo testo di legge, tuttavia Buselli, eletto per il secondo mandato in una lista civica, ne fa una questione di principio. «Identità e territorio sono termini che i nostri parlamentari non prendono in considerazione e invece sono fondamentali per la democrazia», dice. Identità e territorio che non si significano arroccamento e chiusura, concetti molto spesso cavalcati dal centrodestra e dalla Lega. «Non c’entro nulla con le destre, sono un uomo di sinistra e il mio comune è all’insegna dell’inclusione, abbiamo anche 50 richiedenti asilo», sottolinea il sindaco di Volterra. I problemi che racconta Buselli sono vissuti da centinaia di sindaci italiani attanagliati dalla crisi e dalle minori risorse statali. Ma sotto accusa sono soprattutto le scelte “dall’alto” che si basano sui numeri, su aride cifre e non tengono conto delle esigenze delle persone in carne e ossa che vivono in piccoli centri isolati che sono più complesse rispetto a chi vive nelle aree urbane e costiere. Le cosiddette aree interne d’Italia, i piccoli comuni dove vive il 17% della popolazione diventano le “vittime” di «politiche di austerità» che producono diseguaglianze tra i cittadini. Chiudere un poliambulatorio o un ufficio postale in un piccolo comune o in una frazione rappresenta un problema enorme per gli abitanti e perché no, un vulnus quanto ai diritti sanciti dalla Costituzione, sottolinea il sindaco Buselli. Ci sarà anche lui sabato 23 settembre alla seconda giornata di Orgoglio comune a Torrita di Siena. La manifestazione con tanto di corteo e banda e interventi dalla piazza del Comune è promossa tra gli altri dall’Associazione nazionale piccoli comuni italiani (Ancpi), dalla Società dei territorialisti e da alcuni sindaci soprattutto delle regioni “rosse” Emilia Romagna e Toscana. Tra gli organizzatori c’è anche il Comitato No fusione Torrita di Siena-Montepulciano, nato perché un anno fa, racconta Antonio Canzano, uno dei portavoci, le due giunte a maggioranza Pd degli splendidi paesi della Val di Chiana senese hanno presentato la proposta di fusione. Un fulmine a ciel sereno, «visto che si tratta di due comuni di 10mila e 7mila abitanti con il bilancio a posto. E non hanno fatto neanche un’assemblea per spiegarlo ai cittadini», dice Canzano che si definisce uomo di sinistra. Il comitato è costituito da cittadini di Torrita – il paese più piccolo -, in gran parte di famiglie dai nonni e padri comunisti, o fuoriusciti dal Pd e naturalmente anche da elettori di destra. La protesta è nata, ci tengono dirlo, proprio attorno alla proposta, senza alcun fine politico. «Secondo noi davvero questa fusione dipende dalle politiche di austerità che in Italia vengono portate avanti anche in ossequio della lettera della Bce del 2011. Altrove è diverso. In Francia i comuni sono 36mila, in Germania 12mila e non ci pensano a toccarli». «Le fusioni poi non convengono». Canzano cita i dati del Ministero dell’Interno relativi al 2013 secondo i quali in effetti la spesa pro capite cresce in modo esponenziale nei comuni grandi, dai 100mila abitanti in su, così come è elevata nei comuni piccolissimi, tra i 500 e i mille residenti mentre la spesa si dimezza nei comuni dai 3mila ai 20mila abitanti.
Andrea Rossi, sindaco di Montepulciano, stempera gli animi: «L’idea della fusione non c’entra niente con la legge nazionale, nasce due anni fa all’interno di due consigli comunali. Nei prossimi mesi faremo una campagna di comunicazione tra i cittadini. E poi, dopo, i referendum che saranno consultivi ma vincolanti, cioè terremo conto del voto delle persone. Se in ogni comune il 50 per cento più uno degli aventi diritto al voto, si esprime contro la fusione, la fusione certamente non si farà». Ma il sindaco di Montepulciano conferma però quella che è la tendenza a livello nazionale sposata a pieno dal Pd. « L’indirizzo è che al di sotto dei 15mila abitanti si andrà o all’unione o alla fusione. Siccome noi stiamo sperimentando l’unione dei comuni  e abbiamo verificato che è un meccanismo che svuota il territorio dei servizi, abbiamo proposto la fusione».
Rimane il fatto che “per forza” bisogna intervenire in territori in cui il comune – per storia, cultura – è un’istituzione molto sentita, in cui la presenza di un consiglio comunale direttamente espressione dei cittadini di quel luogo è garanzia di democrazia. In una realtà politica, economica e culturale italiana, questa sì sempre più frammentata e contraddittoria, togliere anche quel punto fermo, quel “presidio di collettività” come può essere un comune con la sua manciata di amministratori – che nei piccoli centri hanno rimborsi minimi – significa che il tessuto sociale sarà a rischio di ulteriore disgregazione.
Un’idea poi che circola tra i promotori della manifestazione è che “meno siamo e meglio ci controllano”, citando alcuni esempi di comuni ribelli che si oppongono o si sono opposti a progetti calati dall’alto. Se nascondesse questo disegno, «l’indirizzo per la fusione», non sarebbe certo un’operazione di democrazia.

Leggi anche La rivolta dei piccoli comuni contro la fusione obbligatoria, Left, 11 febbraio 2016