Il primo è stato il campione di football Colin Kapernick ad agosto. Adesso la protesta degli atleti neri americani dilaga ovunque, nel basket, football, baseball. Tutti in ginocchio al momento dell'inno americano. Contro un presidente che fomenta odio e razzismo

Gli uomini più muscolosi d’America sono tutti in ginocchio da settimane. Il mondo dello sport statunitense non assomiglia a quello europeo: è nero, è arrabbiato ed ha una coscienza sociale. Basket. Baseball. Football. Sono i giochi dei nuovi dissidenti americani.

Tutto è cominciato quando il quaterback di San Francisco Colin Kapernick ad agosto 2016 si è rifiutato di «onorare l’inno e mostrare orgoglio per la bandiera di un Paese che opprime i neri e le persone di colore. Devo battermi per gli oppressi. Se mi porteranno via il football, se mi porteranno via gli endorsement, so che mi sarò battuto per qualcosa di giusto», ha detto il giocatore con la sua maglia 49, un numero che ora è associato ad un nuovo “american hero”, un ragazzo «birazziale, nero di colore, ma cresciuto in una famiglia bianca». Sulla linea chiara del campo verde si è giocato stavolta davvero tutto, rischiando lavoro, carriera, supporto, squadra, fan, soldi. Ma ha fatto valere il suo diritto al primo emendamento americano mentre tutta la nazione stava a guardarlo.

Trump ha consigliato ai tifosi di abbandonare gli stadi e ha detto che i giocatori che protestano vanno fired, licenziati, imitando voce e gesto che usava nel suo reality show. Le esatte parole sono state: «licenziate i figli di puttana che non rispettano la nostra bandiera». In soccorso all’atleta nero della Nfl National football league, sono arrivati i giganti scuri dell’ Nba, in particolare i cestisti più forti del mondo. Kevin Durant e l’altra metà del cielo del basket americano, Stephen Curry, hanno deciso di non partecipare all’incontro alla Casa Bianca, meeting di rito per i campioni d’America, attirandosi le ire bionde e nucleari del presidente su Twitter.

Kobe Bryant ha detto: «un Potus – President of the United states – che crea divisione e rabbia, le cui parole ispirano dissenso e odio, non può rendere l’America great again». La scelta di Curry è stata difesa dal suo avversario storico, il campione del mondo LeBron James. Dopo Charlottesville – dove una ragazza che partecipava alla marcia contro i neonazisti ha perso la vita – il 23 dei Cleveland Chevaliers ha detto: «l’odio è sempre esistito in America. Trump l’ha solo reso di nuovo di moda». The people run this country, not one individual, damn sure, not him. Sono le persone a portare avanti il Paese, ha detto LeBron, di sicuro non lui.

Non hanno paura di lottare per i diritti civili dei neri d’America i giocatori di football che da una squadra all’altra continuano ad inchinarsi giorno dopo giorno. Come non ne hanno più le star del baseball. Si è piegato su un ginocchio, durante l’inno, anche Bruce Maxewell, degli Oakland Athletics, prima della partita contro i Texas Rangers. L’ultimo campo di battaglia per la democrazia negli Stati Uniti ora è l’erba verde calpestata prima di una partita.