Esclude gli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia, e qua e là fa sfoggio della politica della “decrescita” dei flussi migratori verso il Belpaese grazie alle «recenti linee di indirizzo politico, all’accordo bilaterale tra il governo italiano e quello libico per il controllo dei flussi» che non poche polemiche hanno sollevato per le condizioni disumane in cui sono costretti a vivere i migranti respinti in Libia. In sintesi, dando un colpo al cerchio e uno alla botte, con il sapore di un documento rassicurante per placare la xenofobia degli elettori, è stato varato il primo Piano nazionale d’integrazione dei titolari di protezione internazionale.
Nel piano del ministero dell’Interno sono dettagliati «doveri e responsabilità per garantire una adeguata convivenza civile», alla ricerca di un armonioso «bilanciamento tra i diritti di chi è accolto con quelli di chi accoglie». Assodato (finalmente) che l’imposizione dell’integrazione per «via legislativa non sembra funzionale» all’uopo perché «obbligare all’assimilazione rischia di causare processi di deculturazione degli stranieri», dal Viminale è stato ritenuto necessario procedere a «sviluppare interventi diretti a facilitare l’inclusione nella società e l’adesione ai suoi valori». Previsti, essenzialmente, nella Costituzione, il Piano fa riferimento, in primo luogo, alla «regolamentazione dei rapporti fra lo Stato e le confessioni religiose» basato su «intese paritetiche» e solo poi all’adesione ai principi di uguaglianza.
Specificando che la strategia di integrazione italiana deve essere “sostenibile”: il buon esito di questo modello «non può prescindere dalla capacità concreta di accoglienza dei territori, che non può essere illimitata». D’altronde, «l’afflusso massiccio irregolare di persone si ripercuote negativamente sulla possibilità di integrare». Nel documento del Viminale «le comunità di fede possono rappresentare le sedi privilegiate dell’attuazione delle politiche di integrazione», a cui si può arrivare anche obbligando i rifugiati a un percorso di formazione linguistica già in fase di prima accoglienza e agevolando l’accesso al sistema di istruzione.
Il Piano, oltre a indicare una stima dei destinatari (74.853 rifugiati o in protezione sussidiaria), ne considera le specifiche esigenze, «nei limiti delle risorse disponibili». E, cercando di distribuire equamente i migranti onde evitare di congestionare i grandi centri urbani, inserendo piccoli numeri di stranieri nei comuni minori, permette di “governare” i flussi dei migranti. I quali, responsabilizzati da un attaccamento alla comunità di residenza, diventano, sostiene il Piano, il «principale anticorpo in grado di prevenire e neutralizzare fenomeni di radicalizzazione». Evitabili questi, anche autorizzando il ricongiungimento famigliare considerato che «la separazione dai membri di una famiglia può avere conseguenze devastanti per il benessere psicofisico delle persone» e generando una «condizione di insicurezza (…) può rappresentare un forte ostacolo al percorso di integrazione».
Pur non dimenticandosi dei connazionali e perciò «nella consapevolezza della situazione d’emergenza abitativa che coinvolge le fasce deboli di tutto il Paese, l’obiettivo, per il prossimo biennio, è che le persone titolari di protezione internazionale possano accedere alle risorse che il welfare territoriale mette a disposizione (…), verificando anche la possibilità di includerle negli interventi di edilizia popolare e di sostegno alla locazione».
Il piano punta anche all’inserimento socio-lavorativo, a rendere accessibile l’assistenza sanitaria con particolare riferimento alle necessità delle categorie più vulnerabili e a garantire la possibilità effettiva dell’iscrizione anagrafica e l’acquisizione della residenza. Questo è il Piano nazionale d’integrazione per i rifugiati sulla carta. Vedremo come sarà attuato.