Raffaella Palladino nuova presidente della rete che coordina più di 80 tra centri antiviolenza denuncia lo scarso ruolo nella cabina di regia del Piano nazionale anti violenza. E l'apertura a troppi soggetti esterni

«Io vengo dalla Campania, da una zona complicata. Molto. Difficile non solo per la deprivazione socioeconomica e culturale ma anche per le infiltrazioni della camorra e per una cultura di genere veramente molto molto indietro rispetto al Paese», premette Raffaella Palladino, la nuova presidente di Dire, l’associazione Donne in rete contro la violenza costituita da oltre 80 centri in tutta Italia. Nel giorno in cui in tutto il mondo si organizza la mobilitazione di Non una di meno – di cui fa parte anche Dire – Left fa il punto sulle strategie per contrastare la violenza contro le donne. Mentre ogni tre giorni in Italia viene uccisa una donna e nel 70 per cento dei casi l’uomo è un ex o il marito o il fidanzato, è importante sapere come le istituzioni stanno affrontando il problema. L’Italia, pur in ritardo, ha sottoscritto la convenzione di Istanbul, che comprende anche una serie di interventi di prevenzione a livello culturale a partire anche dalle scuole che però, non sono contenuti per esempio nella Buona scuola.

Raffaella Palladino ha una grande esperienza, maturata sul campo, visto che nel 1999 ha fondato una cooperativa di donne «con l’obiettivo di lottare e contrastare la violenza di genere». In un territorio, quello tra Napoli e Caserta, che ha visto nel giro di pochi anni, crescere il numero di centri e di case rifugio, luoghi indispensabili per accogliere donne in fuga dal partner violento. E in una regione, la Campania, che è seconda in Italia per violenze contro le donne. Del 2003 è «la nostra prima casa rifugio con un centro antiviolenza a Maddaloni, e una a Santa Maria Capua Vetere e poi quella più conosciuta a Casal di Principe che ha la sede in un bene confiscato». Quest’ultima è diventata ben presto un progetto pilota, perché « abbiamo dato un lavoro alle donne che nella situazione in cui si trovano hanno il grande problema dell’autonomia economica». Un’attività di catering che va fortissimo e poi la confezione di creme e confetture per quel brand Casa Lorena che a suo modo è diventato famoso. Nell’ultimo anno la cooperativa ha gestito 10 centri antiviolenza e 3 case rifugio, «più di mille donne sono state accompagnate fuori della violenza in questi anni».

A livello nazionale, che ne pensa del Piano nazionale contro la violenza? Il 7 settembre si è riunita la cabina di regia.
Sì, una riunione insieme all’Osservatorio nazionale di cui facciamo parte. Il piano strategico? Noi l’abbiamo già in parte contestato. Abbiamo condiviso un anno di lavoro e di confronto, abbiamo fatto un lungo percorso e molte cose sono state recepite, ma altre, fondamentali, no. Nel senso che i centri anti violenza sono valorizzati per il loro ruolo ma sono fuori dei luoghi decisionali. E quindi come al solito, si prendono le nostre esperienze, le nostre prassi operative, il nostro know-how e le decisioni vengono prese altrove. La politica non prende in considerazione le nostre istanze. Non siamo presenti nelle nuove linee guida, né nella cabina di regia che è tutta istituzionale. E nemmeno nell’analoga cabina a livello regionale, per cui le Regioni utilizzeranno le poche risorse a disposizione per il contrasto alla violenza secondo il loro giudizio. Faranno finta di ascoltare i centri nei momenti di concertazione e poi decideranno, a prescindere dalle nostre richieste.

Un atteggiamento che si ripete?
Questa è la nostra storia della nostra relazione con le istituzioni, anche l’altro piano di violenza che adesso si chiude, era stato concertato ma non ci era piaciuto per niente. Queste linee strategiche in verità non sono estranee alla nostra cultura politica, riprendono tutte le indicazioni della convenzione di Istanbul e anche nel linguaggio, nell’approccio e nella strategia, sarebbero condivisibili, se non per alcuni punti nodali che per noi sono veramente inaccettabili.

Quali?
Chi prende le decisioni, in realtà, è altrove. E poi c’è un problema a prescindere, sia dalle linee guida del pronto soccorso che del piano strategico: tutto questo doveva arrivare dopo aver rivisto l’intesa Stato-Regioni del 2014 che definisce i requisiti minimi essenziali dei centri e delle case rifugio. Quell’intesa ha aperto il fianco, perché molto poco stringente, a chi si proponeva sulla scena dei servizi, ovvero una serie di enti senza esperienza, senza ottica di genere, organizzazioni non di donne. Questo genera problemi, perché è chiaro che se una donna si rivolge a un centro e viene accolta da chi si occupa di servizi per gli anziani o per i minori, lei se ne va. Invece l’intesa non è stata rivista, per cui finirà la legislatura e i problemi rimarranno quelli ed uguali.
Abbiamo chiesto tante volte di ripensarci, sia alla cabina di regia sia alla ministra Boschi direttamente, ma ci è stato risposto che i tempi non ci sono più.

Vengono considerati quindi altri soggetti estranei?
Certo, come è accaduto in questi anni. Il centro antiviolenza infatti può essere gestito o da associazioni di donne che hanno questa esclusiva oppure da chi ha maturato 5 anni di esperienza. Il che vuol dire l’universo mondo, delle suore, delle cooperative che hanno aperto sportelli. L’ultimo bando del Dpo è stato vinto da una serie di enti che nulla avevano a che vedere con il lavoro con le donne e molti centri antiviolenza non sono stati finanziati. Quindi, noi continuiamo ad avere dei problemi e alcuni centri chiudono e altri soggetti esterni si candidano. Adesso stanno arrivando le grandi Ong, la violenza contro le donne viene usata per veicolare qualsiasi tipo di politica.

Oggi è la giornata di mobilitazione di Non una di meno, sabato 30 settembre ci sarà quella promossa dalla Cgil soprattutto per chiedere di modificare la depenalizzazione del reato di stalking. Che ne pensa?
Noi siamo contente che un sindacato come la Cgil abbia attenzione a questo tema e che dia un supporto nelle piazze. Il problema è stato il tempismo e la scelta della data del 30 che arriva a ridosso di oggi che è la data internazionale di Non una di meno, la mobilitazione che parte dall’Argentina. Noi come Dire siamo tra le socie di Non una di meno e stiamo preparando questa manifestazione da tempo. C’è il rischio che facendo una manifestazione il 30, si oscuri e si depotenzi la manifestazione di oggi. Noi non abbiamo aderito a quell’appello, precisando perché e mantenendo tuttavia un buon rapporto con il sindacato.

E del reato depenalizzato di stalking?
È chiaro che noi non vediamo di buon occhio questa depenalizzazione, che tra l’altro, è di classe, nel senso che favorisce chi ha più risorse. Noi però chiediamo una riflessione in un’ottica un po’ più complessiva. Ci sono mille cose che vanno riviste anche anche nell’ambito dell’impianto giuridico perché di certo ci sono delle buon eleggi ma ancora nei tribunali le donne vengono rintuzzate sempre. Comunque, oggi come sabato, più siamo in piazza e meglio è.