Come trasformare l’arte di narrare in «un’operazione di salvataggio instancabile». Lo racconta l'autore di Tango del vecchio marinaio. Durante la dittatura uruguayana si nascose in Argentina come migliaia di coetanei. Finendo «nell’inferno» delle torture e dei desaparecidos

«È innanzitutto un canto all’amicizia, all’amore e alla vita, il mio nuovo romanzo» ci dice Mario Delgado Aparaín a proposito del suo Tango del vecchio marinaio (Guanda), un libro di grande spessore letterario e umano. Parla dell’incontro di due amici in una solitaria casetta vicino all’oceano dopo essere stati vent’anni senza vedersi. Le loro vite cambieranno quando conoscono una giovane che stava per suicidarsi. «Ho sempre pensato che una buona storia è quella che racconta un conflitto», racconta a Left lo scrittore uruguaiano. «In questo caso i due amici sono stati “toccati” ognuno in modo diverso, da un personaggio sinistro: un medico supervisore delle torture. Uno di quelli il cui compito era accertarsi che i torturatori non “esagerassero” con i prigionieri durante “l’interrogatorio”». Era una figura tipica delle dittature latinoamericane durante gli anni 70, spiega Aparaín da sempre politicamente attivo nelle file del Frente Amplio, il partito del senatore ed ex presidente Pepe Mujica. Personaggi come il medico hanno provocato una reazione frequente tra i figli degli aguzzini nel momento in cui vengono a sapere cosa hanno combinato i genitori. Una cosa simile si è verificata anche nella Germania post nazista o nella Spagna post franchista, racconta lo scrittore: «In questa mia storia la figlia del medico, una cantante di tango, viene salvata dal suicidio dai due amici, e nasce tra loro un rapporto meraviglioso che rafforza la mia convinzione che nella vita nessuno si salva da solo». L’amicizia, la voglia di vendicarsi, la malignità senza motivo e la resistenza feroce contro la perdita della speranza in una vita “diversa”, sono i temi che ripercorrono con molta passione questa storia. E più in generale tutta la produzione letteraria di Aparaín. Lo abbiamo incontrato in occasione dell’uscita del suo libro in Italia e ne abbiamo approfittato per fargli alcune domande.
Spesso tu utilizzi una frase di J. Guimaraes Rosa: «Scrivere per resistere». Cosa significano queste parole per Mario Delgado Aparaín?
La mia infanzia, in campagna nel nord dell’Uruguay vicino alla frontiera con il Brasile, è stata segnata dalla povertà e circondata da gente molto umile, spesso analfabeti e in tanti erano discendenti di schiavi afrobrasiliani. Li ricordo padroni di una memoria ancestrale notevole, grazie soprattutto agli anziani, narratori ineguagliabili della storia orale dei loro popoli, che tramandavano di generazione in generazione. Iniziai a pensare che non fosse giusto che ci siano esseri umani che nascono, vivono e muoiono senza lasciare traccia sul pianeta. Quegli uomini e quelle donne, portatori di storie e leggende incredibili, raccontate intorno al fuoco, non potevano scomparire come se niente fosse. Fu allora che a vent’anni trasformai l’atto di scrivere in una operazione di salvataggio di piccole storie che andavano inevitabilmente…

L’intervista a Mario Delgado Aparaín prosegue su Left in edicola


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