Se alla già complessa condizione di essere immigrati in Italia si somma quella di essere donna in un Paese che, sulla carta, dispensa pari opportunità di genere ma che, nei fatti, fa pesare ancestrali retaggi culturali di cieco patriarcato, la scelta di diventare madre complica la vita. La maternità di una donna migrante, vissuta in un Paese diverso da quello d’origine e nel quale le reti sociali sono (dovrebbero essere) funzionali a sostenere solo i bisogni degli adulti singoli, fa i conti con scarsi strumenti e risorse. E, in una sempre più consistente femminilizzazione del processo migratorio, in cui le donne ricoprono ormai un ruolo da protagoniste, in un movimento che le affranca dalla vecchia immagine di soggetti passivi, la nascita di un figlio trasforma profondamente il loro progetto migratorio. Se da sole hanno sempre potuto vivere in una posizione di invisibilità sociale, l’arrivo di un figlio spezza inevitabilmente l’isolamento. Se prima c’era, soprattutto, la volontà di risparmiare per investire nel Paese di provenienza, la maternità le costringe a nuovi comportamenti e consumi. Se, da una parte, sono investite dal desiderio di adeguarsi a valori vissuti come più moderni, dall’altra, la gravidanza, riattualizzando il rapporto con la madre, apre un conflitto interno con le proprie radici. Anello mancante o fardello da cui separarsi, vivono in bilico nel delicato compito di conciliare riferimenti, valori e pratiche di cura diversi: come una tela di Penelope, tessono «i legami tra la cultura presente e quella del passato, tra i propri modelli educativi interiorizzati e quelli del Paese che ospita e, specularmente, il loro bambino è chiamato a costruire un’identità complessa a partire da almeno due diversi riferimenti culturali», si legge nel report Nascite migranti, redatto dall’associazione Il Melograno, che da trentaquattro anni si occupa del percorso nascita a Roma. Differenti a seconda dei Paesi d’origine e della storia personale delle donne migranti, tutte, però, accomunate, al momento della nascita di un figlio, da un profondo senso di solitudine.  All’assenza del partner, reale o per incapacità di capirne le esigenze, si aggiunge quella della famiglia allargata che, in ogni tempo e in ogni cultura, ha sostenuto quest’esperienza di profondo cambiamento. «Iniziative, saperi, segreti: tutto questo viene passato dalle donne adulte e già madri alle future madri, in una continuità di legami che sostiene, rassicura e funziona come un “contenitore” affettivo ed esperto». Ma, si legge ancora: «nel Paese d’immigrazione, alle donne non viene quasi mai riconosciuto questo sapere, anche nel caso in cui esse abbiano già vissuto più volte l’esperienza della maternità prima di partire». Ad alimentare l’isolamento, si aggiunga che l’informazione sanitaria nel Belpaese è pensata per le donne italiane e quelle migranti, anche a causa di difficoltà linguistiche, si trovano disorientate nel capirne norme e procedure, nel comprendere le parole degli operatori sanitari e nell’effettuare esami di cui non sempre concepiscono la necessità. E, nonostante per una donna rappresenti, come ogni fase di passaggio e di cambiamento, un momento di grande arricchimento interiore e di creatività, la maternità, per tutte, in Italia, è ancora considerata un ostacolo al lavoro e per le donne immigrate è fonte di più grande vulnerabilità occupazionale. Svantaggio sociale, fragilità, solitudine possono avere effetti anche molto gravi tanto che l’Istituto superiore di sanità e l’Agenzia pubblica della regione Lazio hanno riscontrato nelle donne migranti un’incidenza maggiore, rispetto a quelle autoctone, di nascite prima della trentasettesima settimana di gestazione, difficoltà nel parto, basso peso corporeo alla nascita e mortalità nel primo anno di vita. Oltre agli elevati rischi per la sfera psichica, il disagio arreca «difficoltà a chiedere aiuto perché sicuramente gioca un ruolo fondamentale il timore del controllo sociale, l’ansia di essere giudicate inadeguate e la paura di un possibile allontanamento del figlio a opera dei servizi sociali». Senza negare che le risorse a disposizione, scarse e poco visibili, in una grande città (come Roma) e un’organizzazione dei servizi poco integrata fanno fatica a intercettare i bisogni delle mamme con più difficoltà. Ma con grandi potenzialità di adattamento e di trasformazione.

Se alla già complessa condizione di essere immigrati in Italia si somma quella di essere donna in un Paese che, sulla carta, dispensa pari opportunità di genere ma che, nei fatti, fa pesare ancestrali retaggi culturali di cieco patriarcato, la scelta di diventare madre complica la vita.
La maternità di una donna migrante, vissuta in un Paese diverso da quello d’origine e nel quale le reti sociali sono (dovrebbero essere) funzionali a sostenere solo i bisogni degli adulti singoli, fa i conti con scarsi strumenti e risorse. E, in una sempre più consistente femminilizzazione del processo migratorio, in cui le donne ricoprono ormai un ruolo da protagoniste, in un movimento che le affranca dalla vecchia immagine di soggetti passivi, la nascita di un figlio trasforma profondamente il loro progetto migratorio.

Se da sole hanno sempre potuto vivere in una posizione di invisibilità sociale, l’arrivo di un figlio spezza inevitabilmente l’isolamento. Se prima c’era, soprattutto, la volontà di risparmiare per investire nel Paese di provenienza, la maternità le costringe a nuovi comportamenti e consumi. Se, da una parte, sono investite dal desiderio di adeguarsi a valori vissuti come più moderni, dall’altra, la gravidanza, riattualizzando il rapporto con la madre, apre un conflitto interno con le proprie radici.
Anello mancante o fardello da cui separarsi, vivono in bilico nel delicato compito di conciliare riferimenti, valori e pratiche di cura diversi: come una tela di Penelope, tessono «i legami tra la cultura presente e quella del passato, tra i propri modelli educativi interiorizzati e quelli del Paese che ospita e, specularmente, il loro bambino è chiamato a costruire un’identità complessa a partire da almeno due diversi riferimenti culturali», si legge nel report Nascite migranti, redatto dall’associazione Il Melograno, che da trentaquattro anni si occupa del percorso nascita a Roma.

Differenti a seconda dei Paesi d’origine e della storia personale delle donne migranti, tutte, però, accomunate, al momento della nascita di un figlio, da un profondo senso di solitudine.  All’assenza del partner, reale o per incapacità di capirne le esigenze, si aggiunge quella della famiglia allargata che, in ogni tempo e in ogni cultura, ha sostenuto quest’esperienza di profondo cambiamento. «Iniziative, saperi, segreti: tutto questo viene passato dalle donne adulte e già madri alle future madri, in una continuità di legami che sostiene, rassicura e funziona come un “contenitore” affettivo ed esperto». Ma, si legge ancora: «nel Paese d’immigrazione, alle donne non viene quasi mai riconosciuto questo sapere, anche nel caso in cui esse abbiano già vissuto più volte l’esperienza della maternità prima di partire».

Ad alimentare l’isolamento, si aggiunga che l’informazione sanitaria nel Belpaese è pensata per le donne italiane e quelle migranti, anche a causa di difficoltà linguistiche, si trovano disorientate nel capirne norme e procedure, nel comprendere le parole degli operatori sanitari e nell’effettuare esami di cui non sempre concepiscono la necessità. E, nonostante per una donna rappresenti, come ogni fase di passaggio e di cambiamento, un momento di grande arricchimento interiore e di creatività, la maternità, per tutte, in Italia, è ancora considerata un ostacolo al lavoro e per le donne immigrate è fonte di più grande vulnerabilità occupazionale.

Svantaggio sociale, fragilità, solitudine possono avere effetti anche molto gravi tanto che l’Istituto superiore di sanità e l’Agenzia pubblica della regione Lazio hanno riscontrato nelle donne migranti un’incidenza maggiore, rispetto a quelle autoctone, di nascite prima della trentasettesima settimana di gestazione, difficoltà nel parto, basso peso corporeo alla nascita e mortalità nel primo anno di vita. Oltre agli elevati rischi per la sfera psichica, il disagio arreca «difficoltà a chiedere aiuto perché sicuramente gioca un ruolo fondamentale il timore del controllo sociale, l’ansia di essere giudicate inadeguate e la paura di un possibile allontanamento del figlio a opera dei servizi sociali». Senza negare che le risorse a disposizione, scarse e poco visibili, in una grande città (come Roma) e un’organizzazione dei servizi poco integrata fanno fatica a intercettare i bisogni delle mamme con più difficoltà. Ma con grandi potenzialità di adattamento e di trasformazione.