Meno ingerenza dei genitori, un piano digitale pensato per migliorare l'insegnamento e non come obiettivo finale. E soprattutto più tempo a disposizione, “per conoscere e per conoscersi e non solo per acquisire competenze”

Quando suona la campanella sono già in classe perché mi piace aspettare che i ragazzi entrino e mi trovino lì ad aspettarli. Mi piace vederli entrare un po’ assonnati e salutarli con un bel “Buongiorno!”. Sì, perché vorrei che ogni volta per noi fosse un buon giorno.

Invece mi ritrovo immediatamente a dover fare cose che mi distraggono dal rapporto con loro. Devo tirar fuori il mio computer, perché la scuola, nonostante il Piano Nazionale per la Scuola Digitale, non me lo fornisce, e iniziare a registrare una serie di cose sul tanto osannato registro elettronico: assenze e giustificazioni che poi devo riscrivere anche sul registro cartaceo, oltre che firmare su ogni libretto delle giustificazioni. Se ne vanno buoni dieci minuti. E non è finita qui perché, prima che finisca l’ora di lezione, devo prevedere un altro po’ di tempo per scrivere, sia sul registro elettronico che su quello cartaceo, gli argomenti della lezione e i compiti per casa. Con la rete che a volte funziona a volte no. Ho perso circa quindici/venti minuti del mio prezioso tempo con loro. Ma non ho fatto soltanto questo, ho anche minato l’affannosa ricerca di autonomia dei ragazzi, quell’autonomia che è, sulla carta, uno dei primi obiettivi sbandierati in tutte le programmazioni educative e in tutte le circolari ministeriali. Ma quale autonomia proponiamo se poi i genitori a casa controllano tutto quello che i loro figli devono fare? Di quale autonomia parliamo se, con la scusa della facilitazione del digitale, i nostri ragazzi non si preoccupano più neanche di scriversi i compiti sul diario? Tanto a casa c’è mamma o papà o chi per loro che, con la sua chiave di accesso personale, soltanto sua e non del ragazzo, entra nel registro, controlla tutto e mi dice, lui, quel che devo fare! Quale responsabilizzazione vogliamo che si realizzi negli adolescenti se niente dipende più dalle loro scelte e dalle loro azioni?

Non tacciatemi di passatismo, ma prima le cose andavano in un altro modo. Se facevi o non facevi i compiti era un tuo problema che dovevi poi risolvere nel tuo personale rapporto con gli insegnanti, nel quale i genitori entravano soltanto in casi di eccezionale gravità su invito dei docenti stessi. Avreste mai visto fino a qualche anno fa un genitore recarsi a scuola, fuori da qualsiasi orario di ricevimento, per chiedere all’insegnante spiegazioni su un argomento che il figlio avrebbe dovuto studiare e che probabilmente non aveva ben compreso? Non sarebbe mai accaduto. Il ragazzo o la ragazza sarebbero entrati in classe e avrebbero chiesto, loro, all’insegnate di rispiegare un qualche argomento, dimostrando tra l’altro il proprio interesse e la propria motivazione ad apprendere. L’insegnante avrebbe poi scoperto, con la propria sensibilità e capacità professionale, se era soltanto una scusa per non fare i compiti. Ora no, se qualcosa non è chiaro, ci pensano la mamma o il papà. Autonomia, interesse, motivazione, responsabilizzazione: belle parole che servono ormai soltanto a riempire inutili pagine di programmi e proclami di ministri.

Come pensiamo che gli adolescenti possano avventurarsi nel mondo se non li lasciamo fare e pensare da soli?
E l’insegnante che si trova ridotta la propria ora di lezione per fare cose che egli sente completamente inutili e addirittura dannose per i ragazzi, come vive il suo ruolo? Da un lato la deontologia professionale richiederebbe attenzione e personalizzazione dell’insegnamento, cose che pretendono presenza e tempo, dall’altro il tempo e la presenza gli vengono strappati via per azioni non soltanto vuote di senso, ma anche controproducenti.
Siamo alla dissociazione: si distrugge quel che si dice di voler costruire.
È un’altra la Scuola che vorrei. È una Scuola che si apre la mattina alle 8 e chiude la sera alle 18. È un posto dove si va per conoscere e conoscersi, non per acquisire delle competenze. Un ambiente fatto di stanze colorate, di scaffali con tanti volumi e di tavoli dove si possono aprire libri, giornali, quaderni, senza che uno studente sbatta il gomito su quello del compagno che gli siede accanto. Dove ci sono anche i computer e la rete, ma vengono utilizzati come strumenti utili e non come sostituti di un rapporto di insegnamento che penso si possa definire tale solo se è svolto tra due esseri umani.

Vorrei che i miei colleghi di lavoro avessero il tempo di fermarsi a guardarti negli occhi magari con un sorriso da regalarti, anche quando sei seria e preoccupata per qualcosa che è andato storto. Soprattutto la Scuola che vorrei è un posto dove il digitale viene utilizzato per facilitare il lavoro e per risparmiare tempo prezioso: un ingresso degli allievi con un budge che segna la loro presenza. I genitori potrebbero così giustificare le eventuali assenze direttamente da casa sul sistema. Se l’allievo arriva a scuola senza aver preventivamente giustificato l’assenza, scatta il rosso e la presenza non viene segnata con immediata segnalazione alla famiglia, via sms, che potrà immediatamente giustificare l’assenza. Così io in classe non devo sprecare il mio tempo per fare l’appello e registrare gli assenti prima su un registro cartaceo e poi su quello elettronico e fare la stessa cosa per registrare le giustificazioni delle assenze e dei ritardi e magari telefonare ai genitori per segnalare la mancata giustificazione. Avrei risparmiato almeno 20 minuti della mia ora di lezione! Sarebbe bellissimo!!!! È questo il digitale che vorrei!!!

L’innovazione digitale a scuola dovrebbe servire per avere più tempo e non per averne sempre meno. E, dato che la mia materia di insegnamento è la Storia dell’arte, vorrei tutta la strumentazione necessaria per poter fare delle proiezioni in ogni classe e non dover spiegare la Vergine delle rocce sulle immagini del libro di testo di quattro centimetri per sei dove è piuttosto complesso far comprendere ai ragazzi la prospettiva aerea o i moti dell’animo di Leonardo da Vinci. Non dovrei così spostarmi ogni volta da un piano all’altro, sprecando un altro quarto d’ora della mia ora di lezione, per andare nell’unica aula dove è presente un video proiettore connesso a internet e magari trovarla occupata da un’altra classe!

Vorrei anche una scuola dove non esiste la bocciatura, ma dove a ognuno è concesso il tempo di cui ha bisogno per raggiungere il traguardo. Basterebbe mettere in atto un sistema di crediti come accade in molte scuole del Nord-Europa: se non si raggiungono gli obiettivi dell’anno in corso in una determinata materia, si prosegue nell’anno successivo. E se non bastano i prestabiliti cinque anni, che una sciagurata sperimentazione vuole addirittura ridurre a quattro, qualcuno ne farà uno in più studiando soltanto le materie in cui non ha raggiunto gli obiettivi previsti. Se poi mi trovo di fronte un piccolo genio, posso farlo passare a un livello superiore facendogli risparmiare tempo e anche un po’ di noia.

E ancora, vorrei classi non formate da ventisei alunni, di cui tre disabili, tre Dsa e tre Bes!!!! Vorrei quindici alunni per classe per poterli seguire con calma e attenzione, personalizzando i miei interventi a seconda delle esigenze del ragazzo, perché per me tutti i ragazzi hanno esigenze educative speciali e nessuno deve essere ridotto a una sigla. Forse riuscirei a far recuperare eventuali lacune a tutti e riuscirei anche a farli parlare, con calma, di se stessi, dei propri problemi e delle proprie aspirazioni! E vorrei la presenza di insegnanti di sostegno per tutto il tempo necessario al ragazzo in difficoltà, perché possa aiutarmi a lavorare veramente con lui e non ritrovarmi da sola e impotente di fronte a esigenze che so di non poter soddisfare perché quel ragazzo ha bisogno che qualcuno gli stia vicino tutto il tempo individualizzando gli interventi. Come posso farlo se devo contemporaneamente essere presente per altri venticinque alunni?

E i pomeriggi, quei pomeriggi che i ragazzi passano per lo più da soli a casa davanti a un libro aperto abbandonato per inseguire messaggi e chat varie su uno schermo, vorrei che li passassero a scuola: a fare sport, attività teatrali e musicali; a parlare con i compagni, studiare con loro, magari con l’aiuto di un insegnante; a leggere qualche giornale, discutere di argomenti che li interessano, scoprire che esiste un mondo che dentro le mura della propria casa non entra. Perché i nostri ragazzi sanno poco o niente di quel che accade fuori da quelle mura, ma anche fuori dalla Scuola, oltre quel tempo ormai così ristretto e claustrofobico dove c’è poco spazio per far entrare il mondo vero con tutte le sue tragedie e ingiustizie, ma anche con tutti i movimenti belli che qualcuno eroico riesce ancora a proporre.
Ma lo Stato non può fare seri investimenti nella Scuola: non ci sono soldi. Ma poi non si fa nulla per fermare l’evasione fiscale e si trovano soldi per sgravare le imprese dalle troppe tasse, per salvare banche o aziende ormai bollite.
Stiamo dicendo alle nuove generazioni che non esistono, che non possiamo occuparci di loro, che non abbiamo niente da dargli, se non uno smartphone che li distragga da qual che succede attorno a loro, perché non pensino troppo e non si facciano troppe domande. Stiamo dicendo loro che il futuro non ci interessa.
Provate ora a immaginare come si sente un’insegnante dopo quattro ore di lezione passate a perdere tempo con il computer, a guardare impotente alcuni alunni che sa di non poter aiutare e, nel frattempo, fare una dignitosa lezione per tutti e sapere che quella lezione sarà una piccola goccia di acqua pura in un mare in tempesta. Non so se ci potete riuscirci senza averlo provato almeno una volta, ma vi assicuro che è qualcosa di molto duro che soltanto chi ha una buona dose di propria vitalità e intelligenza riesce a sopportare senza farsi schiacciare. E riesce a tornare il giorno dopo in classe con un bel sorriso da regalare.