Le vittime dei matrimoni forzati in Yemen hanno tra gli 8 e i 15 anni. La proposta di legge che vieta questo crimine si è arenata nel 2015 dopo il colpo di Stato

Nada si alza ogni giorno con un solo pensiero: andare a scuola. «Da quando le hanno riaperte sono molto contenta» dice, in un inglese quasi perfetto. Nada Mohammad, 14 anni il prossimo dicembre, ha un solo cruccio che è più intenso il giovedì che, in Yemen, è l’ultimo giorno della settimana, il giorno in cui si partecipa ai riti nuziali, nonostante la guerra. «La mia amica Rawan non verrà più a scuola e non potremo più divertirci insieme». Un velo di disappunto si posa sul suo viso appena brufoloso quando spiega il perché: «Sono andata a trovarla ieri e mi ha detto che non verrà più: la famiglia l’ha data promessa in sposa e tra due giovedì si celebreranno le nozze. Sono molto triste, non ci vedremo più, almeno per il momento. Quando una ragazza così giovane si sposa non frequenta molto le amiche ancora nubili», sospira.

Nada è una ragazza sveglia ma sognatrice: ha capito da tempo che la via al suo affrancamento sociale non è un marito ma lo studio e lo alterna all’aiuto alla madre in casa. Diligentissima in tutto, non è interessata al matrimonio. «Voglio frequentare l’università e avere un lavoro che mi farà viaggiare». Deve la sua educazione alla mentalità della sua famiglia, una media borghesia yemenita in crescita (la classe sociale dei “ghabili”) a cui il conflitto in corso ha dato una mazzata non indifferente. La madre Abeer non ha mai studiato ma ha imparato a leggere e scrivere insieme ai suoi figli e ha preteso un’educazione completa per tutti, maschi e femmine, dal più grande al più piccolo, fino al grado universitario, se i figli…

L’articolo di Laura Silvia Battaglia prosegue su Left in edicola


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