Il suicidio assistito in Svizzera, di un ingegnere che ha deciso di morire pur non essendo affetto da alcuna patologia all’ultimo stadio, continua a far discutere. Ma è un caso diversissimo da quelli di Piergiorgio Welby o Dj Fabo. Ecco perché

Si è fatto accompagnare da un amico fino alla stazione di Chiasso. Qui ha preso un treno proseguendo da solo fino a Zurigo, dove aveva un appuntamento in una clinica “specializzata” in suicidi assistiti. L’ingegnere di Albavilla (Como), protagonista di questa vicenda di cui molto si è parlato e molto ancora si parla, era affetto da una grave forma di depressione. Nessuno a quanto pare era a conoscenza dei suoi propositi. La magistratura di Como ha aperto un’inchiesta e sui media è scattato il dibattito pubblico che vede da sempre affrontarsi due posizioni nette: da una parte i difensori della vita “sempre e comunque”, dall’altra i sostenitori della libertà di decidere per se stessi “sempre e comunque”. E invece bisogna distinguere. E per farlo siamo tornati a interpellare la psichiatra Daniela Polese.

Per Dj Fabo e Welby non esisteva cura, non c’era alcuna possibilità di ripristinare quanto si era perduto. Si può dire lo stesso per una depressione grave?

Welby e Fabo presentavano lesioni organiche e condizioni permanenti, oggettivamente impossibili da trattare per la medicina. Nel caso di Fabo si trattava di un esito da politrauma. La depressione, invece, anche grave, è una malattia che oggi sappiamo con certezza essere curabile, principalmente grazie alla psicoterapia. In questo caso non sono presenti lesioni organiche. Va da sé che, a differenza dei primi, nella depressione non si può parlare di eutanasia. L’idea di incurabilità nella depressione è un sintomo che caratterizza il malato e non può essere condiviso ma deve essere affrontato e contrastato sia sul piano cosciente che non cosciente. Spesso è necessario intervenire anche contro la volontà del paziente, ricoverandolo.

Vale a dire?

Nei reparti di psichiatria abbiamo spesso pazienti con questa diagnosi. Altrimenti non dovremmo accettare pazienti depressi in ambulatorio, né in reparto. Anzi, non dovremmo nemmeno fare questa diagnosi, né quella di psicosi maniaco-depressiva, in fase depressiva. Sarebbe una condizione da assecondare. Ma è una pazzia, oltre che una totale assenza nei confronti del paziente. Ricordo che a proposito del suicidio assistito in Olanda, lo psichiatra Massimo Fagioli disse che c’è «un criterio di libertà, di cui gli olandesi sono un esempio storico, che va a finire nell’indifferenza più totale. Non c’è più interesse per l’altro. Se vuoi morire, muori, tanto se ci sei o no, non cambia nulla». Invece il medico e in particolare lo psichiatra devono prendersi la responsabilità di una diagnosi e di una terapia. Ad oggi con gli strumenti che abbiamo, grazie alla psicoterapia fondata dallo stesso Fagioli, si può guarire dalla depressione. Ci si ammala per un rapporto interumano malato, in particolare nel primo anno di vita, e con un rapporto valido in psicoterapia si può guarire. E questo è un parere condiviso in psichiatria. Non curare un depresso è omissione di soccorso. Portarlo a morire è omicidio.

Impossibile non ricordare la vicenda di Lucio Magri nel 2011. Esponenti della politica e della cultura a lui vicini, allora, parlarono di un esercizio di “libertà”. Assistere il suicidio di un depresso si può considerare come una risposta a un diritto all’autodeterminazione? Qual è il senso di questa parola, in casi simili?

In aggiunta a quanto citavo prima, non posso non ricordare che lo psichiatra dell’Analisi collettiva diceva con grande chiarezza che «non c’è libertà senza identità». La libertà è qualcosa che richiama un atto creativo, una realizzazione. Non si può associare, come caoticamente si sente fare in alcuni ambiti, alla distruzione, all’omicidio, al suicidio. Noi esseri umani, se non perdiamo la nostra realtà psichica originaria della nascita, caratterizzata da vitalità e capacità d’immaginare, e riusciamo a realizzare la nostra natura, la nostra personalissima identità, allora siamo liberi. La libertà di uccidere o di uccidersi può chiamarsi libertà? Possiamo ricordare che esiste il codice penale che si occupa di omicidio, anche nei casi in cui il medico non intervenga per impedire un suicidio.

La figlia del giudice Pietro D’Amico, anche lui preda di grave depressione per le calunnie subite, combatte dal 2013 perché suo padre «andava aiutato a vivere, non a morire». Quali ricadute ci possono essere sui familiari della persona depressa che, oltre a compiere un gesto così tragico, viene per di più “assistito” da medici autorizzati da uno Stato?

Sul piano psicologico si subisce una grave violenza. È un dramma avere persone care gravemente malate di mente, ed è una tragedia che muoiano nonostante siano curabili. L’importante è che non si creda di essere colpevoli per la loro morte. Anzi, occorre resistere e reagire. Io mi trovo assolutamente d’accordo con la figlia del giudice. Anche qui, la differenza con i familiari di chi è affetto da malattie organiche è lampante: in quei casi in genere l’eutanasia viene richiesta, perché la violenza consiste nel fatto che i pazienti vengono lasciati a soffrire in una condizione organica incurabile e irreversibile.

A essere carente sembra che sia la cultura della “curabilità”. Si pensa che dalla depressione grave non si possa guarire.

L’idea del peccato originale, cioè la convinzione religiosa che “il Male” sia originariamente insito in ciascuno di noi, collude con la convinzione patologica del depresso che crede di non poter guarire. In psicoanalisi corrisponde alla credenza religiosa di un inconscio naturalmente perverso e psicotico, per cui in genere anche in psicoterapia non si interviene per guarire: si cerca di arginare e gestire questa realtà, anziché di eliminarla, perché si crede costituzionale. In psichiatria, è alla base di quella corrente che sostiene che la malattia è organica, genetica ed ereditaria, pur non esistendo una vera dimostrazione scientifica. Ma da decenni continua a praticare esperimenti e a pubblicare nel tentativo di affermarlo, basando la sua prassi su inferenze, giudizi apriori e non su una ricerca, e somministra prevalentemente psicofarmaci.

È anche la cultura del nordamericano Dsm, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali?

Esattamente. Il Dsm fa diagnosi su base statistica anziché clinica, senza che vi sia alcun interesse né verso l’essere umano né verso la conoscenza. Infine, nella psichiatria di derivazione esistenzialista heideggeriana, la malattia è considerata una forma di esistenza e vi è persino la convinzione che il suicidio non possa essere evitato. D’altronde, possiamo pensare che la stessa esistenza del suicidio assistito per i malati di mente colluda con la malattia e spinga il paziente a trovare conferma del suo pensiero malato. È tutto parte di una cultura tradizionale ancora attuale che va rifiutata perché si possa realizzare un’identità psichiatrica che deve essere intelligente e laica.

L’intervista di Francesco Troccoli a Daniela Polese è tratta da Left in edicola


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