Lo chiamano “il punitore”, perché i suoi metodi nella“guerra alla droga” sono letali, perché è un sanguinario, perché risponde così ai reporter nel suo paese, le Filippine: «solo perché sei un giornalista, non vuol dire che non verrai assassinato». Perché ha dichiarato che sarebbe «felice di sgozzare milioni di tossicodipendenti», che la «morte accidentale di bambini» nella sua campagna di guerra alla droga era «solo un danno collaterale». Ma adesso basta. Con un memorandum, oggi il presidente Rodrigo Duterte ha trasferito i poteri che aveva conferito a polizia, militari ed altri corpi statali armati, alla Pdea, l'agenzia anti-droga delle Filippine, che ha solo 1800 membri attivi e che costituiscono solo l'1% delle forze dell'ordine nazionali. Sono morte migliaia di persone da quando il presidente filippino ha dichiarato quindici mesi fa la legge marziale e ha dato la luce verde a tutte le sue divise per sparare a vista. Non necessariamente si doveva essere colpevoli per morire nel paese del “Punitore”: bastava essere dei sospetti per perdere la vita. Non solo i trafficanti, ma anche i piccoli spacciatori, i piccoli criminali sono stati uccisi sotto gli occhi delle loro famiglie. Sono molti gli innocenti che hanno perso la vita per sbaglio, 3900 sono stati gli omicidi sommari, compiuti strada per strada, casa per casa, omicidi di “personalità legate al traffico di droga”, il cui sangue ha bagnato le strade principali delle città fino a quelle più remote delle campagne. Per le organizzazioni umanitarie troppe sono le morti non spiegabili e non collegabili con il business degli stupefacenti: sono state duemila le persone uccise in circostanze non chiarite. Nonostante le proteste degli attivisti dei diritti umani, le lacrime e urla dei parenti dei morti, Rodrigo Duterte non si è mai fermato. Fino ad ora, fino a qui: adesso ha finalmente detto stop alla polizia - 160mila divise - ordinando di terminare le operazioni brutali e sempre mortali della sua campagna anti-droga. Non è stato un atto d'umanità, ma una scelta politica: la sua popolarità è in declino, le manifestazioni contro di lui si moltiplicano, i manifestanti chiedono di “stop the killings”, fermare gli omicidi, e “basta legge marziale”. La popolazione scende in piazza soprattutto per chiedere “justice for Kan”, uno studente 17enne. Kan è stato assassinato ad agosto in circostanze non chiarite nella provincia settentrionale di Manila, la capitale dove siede il leader “castigatore”, che ha chiamato “figlio di puttana” l'ex presidente americano Barack Obama, mentre dal nuovo, Donald Trump, ha ricevuto i complimenti “per l'incredibile lavoro svolto” con la sua guerra ai trafficanti nel paese.  

Lo chiamano “il punitore”, perché i suoi metodi nella“guerra alla droga” sono letali, perché è un sanguinario, perché risponde così ai reporter nel suo paese, le Filippine: «solo perché sei un giornalista, non vuol dire che non verrai assassinato». Perché ha dichiarato che sarebbe «felice di sgozzare milioni di tossicodipendenti», che la «morte accidentale di bambini» nella sua campagna di guerra alla droga era «solo un danno collaterale».

Ma adesso basta. Con un memorandum, oggi il presidente Rodrigo Duterte ha trasferito i poteri che aveva conferito a polizia, militari ed altri corpi statali armati, alla Pdea, l’agenzia anti-droga delle Filippine, che ha solo 1800 membri attivi e che costituiscono solo l’1% delle forze dell’ordine nazionali.

Sono morte migliaia di persone da quando il presidente filippino ha dichiarato quindici mesi fa la legge marziale e ha dato la luce verde a tutte le sue divise per sparare a vista. Non necessariamente si doveva essere colpevoli per morire nel paese del “Punitore”: bastava essere dei sospetti per perdere la vita. Non solo i trafficanti, ma anche i piccoli spacciatori, i piccoli criminali sono stati uccisi sotto gli occhi delle loro famiglie. Sono molti gli innocenti che hanno perso la vita per sbaglio, 3900 sono stati gli omicidi sommari, compiuti strada per strada, casa per casa, omicidi di “personalità legate al traffico di droga”, il cui sangue ha bagnato le strade principali delle città fino a quelle più remote delle campagne.

Per le organizzazioni umanitarie troppe sono le morti non spiegabili e non collegabili con il business degli stupefacenti: sono state duemila le persone uccise in circostanze non chiarite. Nonostante le proteste degli attivisti dei diritti umani, le lacrime e urla dei parenti dei morti, Rodrigo Duterte non si è mai fermato. Fino ad ora, fino a qui: adesso ha finalmente detto stop alla polizia – 160mila divise – ordinando di terminare le operazioni brutali e sempre mortali della sua campagna anti-droga.

Non è stato un atto d’umanità, ma una scelta politica: la sua popolarità è in declino, le manifestazioni contro di lui si moltiplicano, i manifestanti chiedono di “stop the killings”, fermare gli omicidi, e “basta legge marziale”. La popolazione scende in piazza soprattutto per chiedere “justice for Kan”, uno studente 17enne.

Kan è stato assassinato ad agosto in circostanze non chiarite nella provincia settentrionale di Manila, la capitale dove siede il leader “castigatore”, che ha chiamato “figlio di puttana” l’ex presidente americano Barack Obama, mentre dal nuovo, Donald Trump, ha ricevuto i complimenti “per l’incredibile lavoro svolto” con la sua guerra ai trafficanti nel paese.