Raggiungo la presidente della Camera Laura Boldrini di ritorno da un incontro con un liceo a Trieste,“rigenerata”, come dice lei stessa, dalla passione dei “tanti giovani presenti”. “Ho avuto la possibilità di parlare al liceo di Giulio Regeni ed è stata una bella mattinata: mi hanno regalato una Costituzione trascritta a mano da loro, in segno di vicinanza per le battaglie che porto avanti. Dicendomi che non me l’hanno regalato come Presidente della Camera ma come Laura Boldrini perché mi hanno detto che non devo sentirmi sola. Ed è una grande soddisfazione”.
Allora, Presidente, non resta che aspettare che diventino loro classe dirigente…
Gli ho detto proprio questo: devono mettere in atto il cambiamento che vorrebbero vedere e quindi partecipare, dare corpo alla Costituzione. Non possono rimanere passivi: devono essere capaci di determinare il loro presente e il loro futuro. Serve un orizzonte alto per cui vivere, altrimenti la vita è una miseria.
A proposito di diritti e orizzonti: ha destato molto scalpore la sentenza del Tribunale di Torino che ha assolto un uomo accusato di stalking grazie alla sua “condotta riparatoria” e ai 1500 euro che ha versato alla vittima. Partendo da qui, come giudica l’attenzione della politica per la violenza sulle donne (in tutte le sue forme)?
Intanto mi faccia dire che quella sentenza ha messo in evidenza una falla che è riconducibile alla riforma penale: lo stalking non doveva essere tra i reati estinguibili con l’equo indennizzo. Capisco bene perché questa ragazza abbia rifiutato il denaro: è umiliante anche la sola idea. Uno che ti stalkerizza è uno che ti rovina l’esistenza, che provoca ansia, angoscia, controllo e tutto questo non si cancella con il denaro; qui serve giustizia. Io penso che si debba rimediare il prima possibile: già due settimane fa, sulla scia degli ultimi femminicidi e stupri avevo sentito il dovere di rivolgermi alle forze politiche per colmare le lacune che erano emerse nelle recenti norme contro la violenza. Evidentemente se le donne continuano a morire per mano di uomini che erano già stati denunciati c’è qualcosa che non va.
Ci sono state risposte?
La gran parte dei partiti ha risposto. Ma c’è un ma: hanno risposto solo le deputate, come se la violenza sulle donne non fosse un gigantesco problema maschile. Io non mi capacito sul perché i politici uomini non sentano il bisogno di fare proprio questo tema. Delegano alle donne, eppure il problema è tutto maschile. Dovrebbero essere loro in prima linea. Questo è il cambiamento che mi attendo che avvenga nel nostro Paese.
Anche perché sembra che il problema delle donne in questo Paese non si riduca solo alla violenza, no?
Certo. Pensiamo alle donne sul lavoro: il 49% delle donne ha un lavoro ma l’altro 51% non è che non lo vorrebbe, non riesce ad ottenerlo. Poi, il Fondo Monetario Internazionale – non stiamo parlando di una Og di attiviste – dice che se le donne lavorano la produttività aumenta e dice che l’Italia perde svariati punti di Pil perché non stimola il lavoro femminile. E anche di questo non si parla. Noi siamo a crescita demografica sotto zero perché le donne se non lavorano non fanno figli. E poi c’è la rappresentazione mediatica della donna nella nostra società, che è quantomeno imbarazzante rispetto agli altri Paesi europei: spesso le ragazze per apparire in Tv devono essere seminude e mute, come se non avessimo giovani scienziate, matematiche, fisiche letterate o artiste. Anche questo è un grande tema politico. E poi c’è la questione della rappresentanza politica: in Italia a differenza che in Germania e nel Regno Unito ad esempio, non ci sono leader donne, tranne il caso di Giorgia Meloni. E questo lo dico soprattutto alla sinistra. Negli ultimi tempi ci sono stati incontri, vertici e fotografie con la pressoché totale assenza di donne. Ho lavorato per 25 anni in ambito internazionale e la parità di genere era un criterio tenuto in gran considerazione, anche nei convegni una delle prime cose di cui ci si preoccupava era l’equilibrio tra il numero di relatrici e relatori.
A proposito di violenze, ha fatto molto rumore la sua campagna contro l’hate speech in rete e la sua decisione di ribellarsi agli odiatori seriali. Quali sono i risultati? Quali sono le iniziative che dovrebbero intraprendere Facebook e simili?
Innanzitutto mi faccia dire che i risultati sono molto buoni. Io ho pensato a lungo all’opportunità di denunciare, l’ho maturata con il tempo perché vedevo che non farlo era come autorizzare il peggio: i cattivi maestri non si stancavano di fomentare l’odio e quindi a un certo punto ho pensato che fosse mio dovere – non solo diritto – denunciare. E da quando ho iniziato a farlo – perché in uno Stato di diritto non si risponde all’odio con l’odio ma lo si fa con la legge e i social media non sono al di fuori della legge – è crollato il numero delle sconcezze, delle volgarità e delle minacce. Io non abbasserò mai la testa, mai. Ora gli haters sono in ritirata, questa gentaglia può essere rimessa al proprio posto: continuo a firmare tantissime querele con mia grande soddisfazione.
Ma esiste un problema di comportamenti sulla rete?
La rete è uno spazio troppo importante per lasciarlo in mano ai violenti. Ognuno di noi deve assumersi la propria responsabilità. I grandi social dovrebbero fare di più, almeno per essere coerenti con quello che dicono. E invece nel nostro Paese lesinano risorse e presenza fisica: laddove non c’è un investimento in risorse umane non c’è nemmeno la possibilità di intervenire prontamente di fronte all’odio, di cancellare i messaggi, di fare azioni di contrasto. Io rimprovero a Facebook e agli altri di non investire: fanno un sacco di soldi, noi in Italia abbiamo 30 milioni di utenti, e cosa aspettano ad aprire un ufficio qui? Oltre al fatto che dovrebbero cominciare a pagare le tasse nei Paesi in cui fanno business: è inaccettabile una situazione di questo genere ed è una scorrettezza nei confronti delle aziende tradizionali che invece pagano le tasse dove fatturano. È una questione di giustizia sociale. Alla base imponibile mancano tra i 30 e i 32 miliardi di euro. Vale a dire circa 5/6 miliardi di tasse. Questi soldi potrebbero essere utilizzati per aumentare il numero di famiglie che hanno diritto al reddito di inclusione. Bisogna essere più esigenti con i giganti del web.
Nelle nostre interviste spesso ci interroghiamo sul fatto che “essere buoni” (meglio: buonisti) sia diventato terribilmente fuori moda come se la solidarietà, la bontà e la gentilezza siano “debolezze” imperdonabili. Che ne pensa?
Rivendico la centralità di questi valori perché sono gli unici che garantiscono a una società di reggersi. Da anni stiamo assistendo all’esproprio del senso profondo delle parole. C’è chi cerca di alternare il significato per proporre un modello improntato alla ferocia, all’ostilità reciproca. Tutto questo viene fatto senza che nessuno si opponga: addirittura quel modello lo si acquisisce. Una vera debacle politico-culturale. Che il termine buonista rappresenti un disvalore ne è la conferma. Mi chiedo: si vivrebbe forse meglio in una società cattiva e egoista? Essere buonista non significa essere fesso o voler far del male ai propri simili a vantaggio di altri. Questo è sbagliato, un’alterazione di senso. Bisogna essere più assertivi, respingere queste interpretazioni linguistiche e rivendicare certi valori con forza e a testa alta.
Possiamo dire che la sinistra ha le sue responsabilità da questo punto di vista?
Certo! Possiamo dirlo. Il linguista statunitense Lakoff dice di “non rincorrere l’elefante”, e lo dice ai democratici per invitarli a non rincorrere i repubblicani: quello che sta accadendo è proprio questo ed è un grande errore politico.
Ma su questo non crede che si senta anche la mancanza di intellettuali?
È una categoria che forse ha un po’ “mollato” dal punto di vista dell’influenza politica, come se si fosse rotto un patto, come se ci fosse uno scollamento. La politica invece ha bisogno della cultura, delle idee e delle prospettive. Ed è per questo che ho aperto Montecitorio a tante iniziative culturali.
Lei è quotidianamente bersaglio di un certo giornalismo che la “usa” per improbabili tesi di “sostituzione etnica” e altro. Gli attacchi, spesso, sono sul suo essere donna piuttosto che sulle sue tesi politiche. Come convive con questo stillicidio? Crede che l’Ordine dei giornalisti dovrebbe intervenire più duramente?
Cerco di non farmi rovinare la giornata da tutto questo né tantomeno mi faccio intimidire. Ma qui non siamo nel giornalismo: siamo nell’ambito molto torbido del fango e dell’invenzione che ha come obiettivo quello di rovinare la reputazione delle persone. Sono imprenditori della disinformazione, sono specialisti dell’imbroglio. In un Paese normale tutto questo non dovrebbe andare sotto l’egida del giornalismo. L’Ordine dovrebbe almeno tutelare la categoria che rappresenta dai mistificatori di professione. Perché le falsità e le invenzioni contro di me non dovrebbero essere solo un mio problema, ma di tutti. C’è un inquinamento dell’intero sistema mediatico e a rimetterci sono i cittadini e il loro diritto a una corretta informazione.
Diceva Pasolini che i diritti sono quasi sempre quelli degli altri. Forse la disperazione del momento sta spingendo molti a credere che i diritti degli altri debbano per forza incidere sui propri. Così anche la battaglia per lo Ius soli è diventata una narrazione tutta fondata sulla paura. Come invertire la rotta?
Intanto la definizione di Ius Soli è già un equivoco. Non si tratta di questo. Nella legge esiste una serie di condizioni che devono essere rispettate: è una legge equilibrata, fatta a tappe. Dovrebbe essere vista come il giusto compromesso di esigenze diverse. E invece passa la narrazione fuorviante che tutti quelli che arrivano in Italia diventano italiani. La si racconta per creare paura. Io penso che bisogna spiegare questo provvedimento attraverso i principi e i valori che contiene: solo così si capirebbe che è una questione di giustizia. Parliamo di figli che vanno a scuola con i nostri figli, che conoscono l’italiano come noi e che considerano questo Paese il loro Paese. Come si rende una persona capace di dare il meglio? Quando la si include. Quando la si rende parte di una comunità. E quindi, se la politica è l’arte del futuro, questa legge s’ha da fare.