Per affermare i diritti delle donne bisognava lottare contro tre tiranni che concretamente ostacolavano la loro emancipazione: lo Stato, la Chiesa e l’opinione pubblica. Emma Goldman vedeva molto più lontano della suffragette e, dopo l'iniziale fascinazione ebbe il coraggio di criticare ciò che non andava nella rivoluzione di ottobre

La Rivoluzione d’ottobre vista con gli occhi di Emma Goldman. Abbiamo chiesto a Carlotta Predazzini redattrice di A rivista anarchica di raccontarci la straordinaria avventura politica e umana dell’attivista anarchica, di cui Pedrazzini ha appena tradotto e curato un libro, Un sogno infranto. Russia 1917, edito da Zero in condotta.

“Sono onorata di essere la prima agitatrice politica deportata dagli Stati Uniti”. Emma Goldman si rivolse così ai giornalisti accorsi al porto di New York, in una fredda mattina invernale, per documentare la sua imminente partenza. Era il 21 dicembre 1919 ed “Emma la rossa” – come la definivano i giornali – era in procinto di salire a bordo del transatlantico Buford che l’avrebbe condotta in Unione Sovietica, per sempre lontano dagli Stati Uniti, sua terra di adozione e di battaglie politiche.
Con la rivoluzione russa, la paura di un contagio politico aveva colpito il governo statunitense come una febbre. Sbarazzarsi di tutti i ribelli, gli agitatori sociali, gli instancabili militanti politici era diventato un obiettivo primario. Goldman era in cima alla lista degli indesiderati, per la sua fervida attività di anarchica e rivoluzionaria e per il ruolo avuto nelle battaglie sociali dell’epoca. Dall’emancipazione femminile all’antimilitarismo, dalle lotte dei lavoratori alla rivoluzione sociale, sempre nel segno dell’anarchismo.
Erano trascorsi più di trent’anni da quando Goldman, nel 1885, aveva lasciato la Russia zarista. Accolta nella comunità di immigrati russi di Rochester, sul lago Ontario, i suoi membri l’avevano subito messa in guardia: lì la vita non era meno difficile. La povertà schiacciava i lavoratori come un macigno e quei principi di libertà e di uguaglianza contenuti nella famosa Dichiarazione di Indipendenza erano rimasti perlopiù lettera morta.
In quel periodo, l’onda degli scioperi e delle mobilitazioni si era propagata in tutto il paese e la campagna per il diritto alle otto ore lavorative infiammava gli animi della classe operaia. Emma, ancora ragazzina, iniziò a frequentare un circolo socialista per tentare di comprendere i problemi e le contraddizioni della società in cui era immersa. Fu poi la vicenda dei “martiri di Chicago” ad accelerare il suo processo di apprendimento, spingendola tra le braccia del movimento anarchico statunitense, di cui divenne presto uno dei membri più attivi, conosciuti e temuti di tutta la storia degli Stati Uniti.
Nel 1889, all’età di vent’anni, Goldman diede inizio alla sua attività militante. Da quel momento la si poteva trovare ad arringare i lavoratori nelle piazze, distribuire volantini davanti alle fabbriche, scrivere articoli e tenere conferenze in tutto il paese. L’obiettivo? Esortare gli oppressi a modificare il proprio destino, fatto di povertà e miseria; ma anche sovvertire l’ordine sociale e politico, responsabile di quella diseguaglianza che così marcatamente caratterizzava l’America.
Dopo appena quattro anni, Goldman finì in carcere con l’accusa di “incitazione alla rivolta”. Fu un discorso tenuto a Union Square, New York, di fronte a circa tremila lavoratori e lavoratrici, a costarle un anno di galera.
Nei dodici mesi trascorsi nel penitenziario di Blackwell’s Island, ebbe modo di incontrare le donne ai margini: prostitute ed emarginate di ogni genere con cui strinse un legame di amicizia. Fu grazie ai loro racconti e alle loro storie che si rese conto di quanto fosse necessaria l’emancipazione femminile. Una volta rilasciata, iniziò ad occuparsi della questione, scrivendo e tenendo conferenze contro il matrimonio e la morale religiosa – colpevoli di imprigionare le donne -, in favore della contraccezione e della maternità consapevole, ma anche per la libertà sessuale, il libero amore e l’autodeterminazione. I suoi incontri pubblici erano sempre tanto affollati quanto minacciati dalla polizia, e in seguito ad una conferenza sulla contraccezione venne nuovamente arrestata.
In quel periodo, le suffragette si trovavano al centro dei dibattiti femministi e a loro Goldman indirizzò molte critiche. Per Emma, le femministe suffragiste stavano ingannando le donne, fornendogli la sola arma del voto per uscire da una grave condizione di subalternità. Le donne, piuttosto, avrebbero fatto meglio a liberarsi da quei tiranni che concretamente ostacolavano la loro emancipazione: lo Stato, la Chiesa e l’opinione pubblica.
La sua azione politica si sviluppava su più fronti. Quando in Europa scoppiò la guerra, Goldman fu in prima fila a denunciare il militarismo. E appena il governo introdusse la leva obbligatoria, per spedire nelle trincee quanti più giovani americani possibile, Emma fondò la Lega contro la coscrizione. Allo scoppio della Rivoluzione Russa, poi, difese i bolscevichi dagli attacchi mediatici. A quel punto, per il governo, l’anarchica aveva oltrepassato il limite e ne dispose l’allontanamento.
Goldman trasformò lo stigma della deportazione in un’opportunità: era felice di tornare nella Russia post-rivoluzionaria, che incarnava “lo spirito dell’umanità, la sua redenzione”. Si sarebbe messa subito a disposizione del popolo, avrebbe fatto la sua parte. Purtroppo, però, il sogno di essere approdata nella terra dell’uguaglianza e della libertà si trasformò presto in un incubo. Al suo arrivo, nel gennaio del 1920, il regime dispotico instaurato dai bolscevichi era già nel pieno delle sue forze. Le carceri traboccavano di oppositori politici, tra cui quegli anarchici e quei socialisti rivoluzionari che avevano contribuito ad abbattere lo zarismo. Nei suoi ventitré mesi di permanenza in Russia, Goldman ebbe modo di viaggiare per il paese, verificando la situazione sociale e confrontandosi direttamente con operai e contadini. La militarizzazione del lavoro e le requisizioni forzate dei raccolti avevano colpito duramente i lavoratori e la povertà aveva raggiunto un livello insostenibile. I soviet avevano perso la loro autonomia e le classi sociali erano state abolite, ma solo per far spazio ad un sistema di privilegi che premiava alcuni gruppi sociali a scapito di altri. Inoltre la mancanza di libertà, le incarcerazioni indiscriminate, le uccisioni sommarie aggravavano una situazione già molto critica. Goldman si rivolse a Lenin, chiedendo spiegazioni per la generale situazione del paese e per la repressione degli anarchici, ma non cambiò nulla.
Con la soppressione nel sangue della rivolta dei marinai di Kronstadt, che avevano preso le difese dei lavoratori entrati in sciopero, Goldman capì che in Russia non c’era posto per chiunque non fosse allineato con il governo e abbandonò il Paese in forte contrasto con i comunisti al potere, “traditori della Rivoluzione”. Fu la sua più grande delusione politica.
Lasciata la Russia, si dedicò alla stesura di articoli e libri a denuncia del regime dittatoriale instaurato dai bolscevichi. Nel 1936 poi, all’età di 67 anni, partì per la Spagna per sostenere la rivoluzione sociale, la lotta contro il generale Franco e le istanze di emancipazione femminile portate avanti dal gruppo anarco-femminista Mujeres Libres.
Gli scenari cambiarono, ma il suo impegno dalla parte delle classi subalterne, per la giustizia sociale e per la libertà non si esaurì mai. «Fino alla fine dei miei giorni, il mio posto sarà con gli oppressi e i diseredati. Non mi importa se i tiranni si trovano nel Cremlino o in un altro centro del potere».