Sono passati quarantasei anni. Di ingiustizia, di silenzi, di porte chiuse in faccia a chi chiedeva la verità e, anche senza ottenerla, ho continuato di sperare di averla, ogni giorno, prima o poi. Quel poi è arrivato oggi, quasi mezzo secolo dopo. Ahmed Timol è morto quarantasei anni fa in custodia della polizia, nell'ottobre del 1971 e non si è suicidato come dicono tutte le versioni ufficiali stilate finora. Non ha mai deciso di porre fine alla sua vita, non è mai saltato dal decimo piano della stazione di polizia a Johannesburg dalla stanza numero 1026. Timol era un leader della resistenza clandestina alla minoranza bianca. Era un insegnante di scuola. Era un membro del partito comunista sudafricano. Scappò a Londra quando cominciarono a perseguitarlo, poi a Mosca. Poi tornò in patria. Fino al 1971, fu ripetutamente arrestato e torturato. Poi Timol, che aveva allora solo 29 anni e si batteva quotidianamente contro l'apharteid, è stato ucciso. Ed è stato buttato giù dalla finestra o dal tetto della John Vorster police station. «He did not commit suicide, but was murdered». Non ha commesso suicidio, ma è stato ucciso. La maniera in cui l'indagine sulla sua morte è stata condotta «fa supporre che ci sia stato il chiaro intento di cover up, di insabbiare l'incidente con una versione fabbricata del suo suicidio». Ora il sergente Jan Rodrigues, l'ultimo ad averlo visto vivo, «sarà sotto inchiesta per omicidio». Quando il giudice Billy Mothle nella Alta Corte di North Gauteng a Pretoria, Sud Africa, ha emesso la sentenza, lacrime incredule ed applausi scroscianti hanno rotto il silenzio della stanza. Sono almeno 73 i “suicidi” commessi dagli attivisti mentre erano in custodia dalla polizia dal 1963 e 1990. Ora c'è bisogno che vadano riesaminati tutti. La storia di questo processo in Sud Africa è grande, come l'oblio che è caduto su tutte le atrocità commesse negli anni di ingiustizia razziale e di regime repressivo, dal 1948 al 1994. Lo ha detto in tribunale anche George Bizos, un veterano per la lotta dei diritti e amico di Nelson Mandela. Sono pochi i precedenti casi legali in cui si è detta la verità ad alta voce e anche per questo è stata creata la TRC, Truth and reconciliation commission, la commissione per la verità e riconciliazione. I ricordi dell'apharteid sono ancora vivi, come lo sono i nipoti di Timol: «vogliamo risposte, viviamo in una società democratica, quella per cui nostro zio ha pagato il prezzo più grande». La foto di Ahmed Timon è tratta dal sito dedicato alla sua vicenda, www.ahmedtimol.co.za

Sono passati quarantasei anni. Di ingiustizia, di silenzi, di porte chiuse in faccia a chi chiedeva la verità e, anche senza ottenerla, ho continuato di sperare di averla, ogni giorno, prima o poi. Quel poi è arrivato oggi, quasi mezzo secolo dopo. Ahmed Timol è morto quarantasei anni fa in custodia della polizia, nell’ottobre del 1971 e non si è suicidato come dicono tutte le versioni ufficiali stilate finora. Non ha mai deciso di porre fine alla sua vita, non è mai saltato dal decimo piano della stazione di polizia a Johannesburg dalla stanza numero 1026.

Timol era un leader della resistenza clandestina alla minoranza bianca. Era un insegnante di scuola. Era un membro del partito comunista sudafricano. Scappò a Londra quando cominciarono a perseguitarlo, poi a Mosca. Poi tornò in patria. Fino al 1971, fu ripetutamente arrestato e torturato. Poi Timol, che aveva allora solo 29 anni e si batteva quotidianamente contro l’apharteid, è stato ucciso. Ed è stato buttato giù dalla finestra o dal tetto della John Vorster police station.

«He did not commit suicide, but was murdered». Non ha commesso suicidio, ma è stato ucciso. La maniera in cui l’indagine sulla sua morte è stata condotta «fa supporre che ci sia stato il chiaro intento di cover up, di insabbiare l’incidente con una versione fabbricata del suo suicidio». Ora il sergente Jan Rodrigues, l’ultimo ad averlo visto vivo, «sarà sotto inchiesta per omicidio». Quando il giudice Billy Mothle nella Alta Corte di North Gauteng a Pretoria, Sud Africa, ha emesso la sentenza, lacrime incredule ed applausi scroscianti hanno rotto il silenzio della stanza. Sono almeno 73 i “suicidi” commessi dagli attivisti mentre erano in custodia dalla polizia dal 1963 e 1990. Ora c’è bisogno che vadano riesaminati tutti.

La storia di questo processo in Sud Africa è grande, come l’oblio che è caduto su tutte le atrocità commesse negli anni di ingiustizia razziale e di regime repressivo, dal 1948 al 1994. Lo ha detto in tribunale anche George Bizos, un veterano per la lotta dei diritti e amico di Nelson Mandela. Sono pochi i precedenti casi legali in cui si è detta la verità ad alta voce e anche per questo è stata creata la TRC, Truth and reconciliation commission, la commissione per la verità e riconciliazione. I ricordi dell’apharteid sono ancora vivi, come lo sono i nipoti di Timol: «vogliamo risposte, viviamo in una società democratica, quella per cui nostro zio ha pagato il prezzo più grande».

La foto di Ahmed Timon è tratta dal sito dedicato alla sua vicenda, www.ahmedtimol.co.za