Saper trasformare un dolore infinito, come è quello di un figlio ucciso in un attentato, in energia positiva e non in desiderio di vendetta. Una storia personale che s’intreccia con quella di una terra dove la parola dialogo sembra bandita, dove a prevalere sembra esse sempre e solo la logica della forza; una terra dove si erigono muri, non solo fisici ma mentali. Questa terra è la Palestina. Ma se è vero che una pace vera, giusta, duratura, tra pari, non può calare dall’alto o essere imposta con la forza, ma essa deve nascere dal basso, dall’incontro tra esperienze di vita che crescono nei due campi, allora di questa speranza, di questo coraggio Shakib Shanan ne è una testimonianza straordinaria. Shakib Shanan è un ex parlamentare laburista di origine drusa, il cui figlio Kamil è stato ucciso in un attentato terroristico al Monte del Tempio il 14 luglio scorso. Shakib Shanan ha preso la parola, l’8 ottobre, al Parco dell’Indipendenza a Gerusalemme a conclusione della marcia delle 30mila donne israeliane, ebree e arabe, e palestinesi organizzata da “Women Wage Peace” (Le Donne fanno la Pace). Una marcia della speranza che ha attraversato Israele e parte della West Bank, per ribadire, con le parole di Shakis Shanan, che “la guerra non è il nostro destino, che la pace è possibile. La pace è vita”. Shakib ha arricchito una grande manifestazione che ha avuto tra le promotrici Michal Froman, accoltellata da un palestinese nel gennaio 2016, mentre era in attesa del suo quinto figlio. Lei ha animato la marcia, ne è stata una delle artefici perché, dice a Left, vuole ancora "credere nella pace". Per Shakib e Michal, un nuovo umanesimo è possibile anche in Palestina. Cosa ha significato per lei la marcia organizzata da Women Wage Peace? Una straordinaria occasione per riaffermare che la pace non è una illusione ma è qualcosa che va fatta crescere, giorno dopo giorno, dal basso, ascoltando le ragioni dell’altro, condividendo il dolore e la speranza. Per quanto riguarda Israele, ciò che mi sento di dire che riconoscere ai Palestinesi il diritto di vivere in uno Stato indipendente a fianco del nostro Stato non è una concessione al nemico o un cedimento ai terroristi, è invece l’unico modo per provare a dare ai nostri ragazzi una vita normale. E al contempo, mi sento di poter dire, sulla base di una esperienza personale che segnerà per sempre il resto della mia vita, che non è con il terrore che si otterrà giustizia e si conquisterà ciò che si vuole, di cui si ha diritto. L’odio produce odio, la violenza alimenta altra violenza in una spirale che dobbiamo riuscire a spezzare. E’ quello che ha inteso dire la marcia che è iniziata a Sderot e si è conclusa a Gerusalemme. In quelle due settimane, donne di diversa estrazione sociale, ebree e arabe, laiche e ortodosse hanno dimostrato che le diversità non sono una minaccia bensì una ricchezza da condividere, che fa crescere. Abbiamo discusso, ballato, parlato delle nostre storie personali, dei drammi che le hanno a volte segnate, come nel mio caso. Ci siamo ascoltate, e l’ascolto è la base di un vero dialogo…”. Dal palco, lei si è rivolta direttamente al primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e al presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen) perché riprendessero la via del negoziato. Ma è una via ancora praticabile? Io spero di sì. Mi batto perché sia così. Non dobbiamo arrenderci a coloro che pensano che nel destino di Israeliani e Palestinesi non vi sia altro spazio che per l’odio, per una contrapposizione senza fine. Mi rifiuto di crederlo. Il vero illuso è chi pensa che si possa fermare il tempo e mantenere l’attuale status quo. Il tempo non lavora per la pace. Ai leader politici io chiedo onestà e coraggio, e di ricordare la lezione che ci ha lasciato un politico che io ho avuto l’onore di conoscere personalmente e di apprezzare: Yitzhak Rabin. Rabin è stato un generale, ha passato buona parte della sua vita a combattere per difendere Israele, ma ha compreso una cosa fondamentale…”. Quale? Che la battaglia più difficile da condurre e da vincere è quella della pace. Che solo con la pace Israele può preservare la propria sicurezza e che la pace si fa col nemico. Rabin ha pagato con la vita la sua apertura all’Olp e la stretta di mano con Arafat. Ha lotta strenuamente contro il terrorismo ma al tempo stesso ha detto agli Israeliani che non esiste una pace a costo zero. E’ una lezione che non va smarrita. Una lezione di vita”. Come quella delle donne protagoniste della marcia. Cosa hanno di “speciale” le donne per essere state loro protagoniste di una iniziativa che, settimane dopo, continua a far discutere e a emozionare? Non mi è facile rispondere a questa domanda. Ma ci provo: ecco, credo che noi donne siamo più testarde, più concrete, e, più degli uomini, sappiamo il valore della vita, fin dal suo nascere. Sappiamo bene cos’è il dolore ma anche la felicità di essere donna e madre. Forse più degli uomini sappiamo coltivare i sentimenti e forse siamo meno calcolatrici. La marcia ha avvicinato donne israeliane e palestinesi che, come me, hanno visto cadere in guerra o in atti di terrorismo i propri figli o fratelli o mariti...E’ una ferita incancellabile ma lo sforzo che abbiamo compiuto è quello di trasformare un vuoto incolmabile in energia positiva, insieme per evitare che altre madri o moglie o sorelle debbano vivere ciò che noi abbiamo vissuto. Per questo abbiamo unito le nostre voci per chiedere pace. Per invocare giustizia e non vendetta”. Pensa che questo messaggio possa raggiungere la maggioranza dell’opinione pubblica israeliana e palestinese? È l’impegno che ci siamo assunte, è il senso della marcia dell’8 ottobre. So bene che remiamo controcorrente, conosco la politica del mio Paese, ma la pace non ha alternative. Un altro messaggio importante che si è inteso dare con la marcia, è che ognuna/o può fare qualcosa per rafforzare il dialogo. Guai a pensare: cosa posso fare io, singola persona, per raggiungere qualcosa che neanche chi aveva il potere, presidenti, primi ministri…è riuscito a realizzare…Il discorso va ribaltato: nel proprio specifico, ognuno per ciò che può, è possibile far avanzare le ragioni della pace. Non c’è bisogno di essere un parlamentare o chissà cosa: parlare con i propri vicini, partecipare a iniziative di discussione, manifestare, sono modi concreti per dire anche io ci sono, e voglio portare il mio contributo. La pace non ammette deleghe”. La pace ha un colore politico? Assolutamente no. A dar vita alla marcia, sono state donne di sinistra, di centro e di destra. La pace è trasversale. Ciò che importa è che nessuna si sia sentita detentrice di una verità assoluta che deriva da una professione di fede religiosa o di credo politico. La pace è incontrarsi a metà strada. E’ un cammino difficile ma vale la pena imboccarlo”. (ha collaborato Cesare Pavoncello)

Saper trasformare un dolore infinito, come è quello di un figlio ucciso in un attentato, in energia positiva e non in desiderio di vendetta. Una storia personale che s’intreccia con quella di una terra dove la parola dialogo sembra bandita, dove a prevalere sembra esse sempre e solo la logica della forza; una terra dove si erigono muri, non solo fisici ma mentali. Questa terra è la Palestina. Ma se è vero che una pace vera, giusta, duratura, tra pari, non può calare dall’alto o essere imposta con la forza, ma essa deve nascere dal basso, dall’incontro tra esperienze di vita che crescono nei due campi, allora di questa speranza, di questo coraggio Shakib Shanan ne è una testimonianza straordinaria. Shakib Shanan è un ex parlamentare laburista di origine drusa, il cui figlio Kamil è stato ucciso in un attentato terroristico al Monte del Tempio il 14 luglio scorso. Shakib Shanan ha preso la parola, l’8 ottobre, al Parco dell’Indipendenza a Gerusalemme a conclusione della marcia delle 30mila donne israeliane, ebree e arabe, e palestinesi organizzata da “Women Wage Peace” (Le Donne fanno la Pace). Una marcia della speranza che ha attraversato Israele e parte della West Bank, per ribadire, con le parole di Shakis Shanan, che “la guerra non è il nostro destino, che la pace è possibile. La pace è vita”. Shakib ha arricchito una grande manifestazione che ha avuto tra le promotrici Michal Froman, accoltellata da un palestinese nel gennaio 2016, mentre era in attesa del suo quinto figlio. Lei ha animato la marcia, ne è stata una delle artefici perché, dice a Left, vuole ancora “credere nella pace”. Per Shakib e Michal, un nuovo umanesimo è possibile anche in Palestina.

Cosa ha significato per lei la marcia organizzata da Women Wage Peace?

Una straordinaria occasione per riaffermare che la pace non è una illusione ma è qualcosa che va fatta crescere, giorno dopo giorno, dal basso, ascoltando le ragioni dell’altro, condividendo il dolore e la speranza. Per quanto riguarda Israele, ciò che mi sento di dire che riconoscere ai Palestinesi il diritto di vivere in uno Stato indipendente a fianco del nostro Stato non è una concessione al nemico o un cedimento ai terroristi, è invece l’unico modo per provare a dare ai nostri ragazzi una vita normale. E al contempo, mi sento di poter dire, sulla base di una esperienza personale che segnerà per sempre il resto della mia vita, che non è con il terrore che si otterrà giustizia e si conquisterà ciò che si vuole, di cui si ha diritto. L’odio produce odio, la violenza alimenta altra violenza in una spirale che dobbiamo riuscire a spezzare. E’ quello che ha inteso dire la marcia che è iniziata a Sderot e si è conclusa a Gerusalemme. In quelle due settimane, donne di diversa estrazione sociale, ebree e arabe, laiche e ortodosse hanno dimostrato che le diversità non sono una minaccia bensì una ricchezza da condividere, che fa crescere. Abbiamo discusso, ballato, parlato delle nostre storie personali, dei drammi che le hanno a volte segnate, come nel mio caso. Ci siamo ascoltate, e l’ascolto è la base di un vero dialogo…”.

Dal palco, lei si è rivolta direttamente al primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e al presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen) perché riprendessero la via del negoziato. Ma è una via ancora praticabile?

Io spero di sì. Mi batto perché sia così. Non dobbiamo arrenderci a coloro che pensano che nel destino di Israeliani e Palestinesi non vi sia altro spazio che per l’odio, per una contrapposizione senza fine. Mi rifiuto di crederlo. Il vero illuso è chi pensa che si possa fermare il tempo e mantenere l’attuale status quo. Il tempo non lavora per la pace. Ai leader politici io chiedo onestà e coraggio, e di ricordare la lezione che ci ha lasciato un politico che io ho avuto l’onore di conoscere personalmente e di apprezzare: Yitzhak Rabin. Rabin è stato un generale, ha passato buona parte della sua vita a combattere per difendere Israele, ma ha compreso una cosa fondamentale…”.

Quale?

Che la battaglia più difficile da condurre e da vincere è quella della pace. Che solo con la pace Israele può preservare la propria sicurezza e che la pace si fa col nemico. Rabin ha pagato con la vita la sua apertura all’Olp e la stretta di mano con Arafat. Ha lotta strenuamente contro il terrorismo ma al tempo stesso ha detto agli Israeliani che non esiste una pace a costo zero. E’ una lezione che non va smarrita. Una lezione di vita”.

Come quella delle donne protagoniste della marcia. Cosa hanno di “speciale” le donne per essere state loro protagoniste di una iniziativa che, settimane dopo, continua a far discutere e a emozionare?

Non mi è facile rispondere a questa domanda. Ma ci provo: ecco, credo che noi donne siamo più testarde, più concrete, e, più degli uomini, sappiamo il valore della vita, fin dal suo nascere. Sappiamo bene cos’è il dolore ma anche la felicità di essere donna e madre. Forse più degli uomini sappiamo coltivare i sentimenti e forse siamo meno calcolatrici. La marcia ha avvicinato donne israeliane e palestinesi che, come me, hanno visto cadere in guerra o in atti di terrorismo i propri figli o fratelli o mariti…E’ una ferita incancellabile ma lo sforzo che abbiamo compiuto è quello di trasformare un vuoto incolmabile in energia positiva, insieme per evitare che altre madri o moglie o sorelle debbano vivere ciò che noi abbiamo vissuto. Per questo abbiamo unito le nostre voci per chiedere pace. Per invocare giustizia e non vendetta”.

Pensa che questo messaggio possa raggiungere la maggioranza dell’opinione pubblica israeliana e palestinese?

È l’impegno che ci siamo assunte, è il senso della marcia dell’8 ottobre. So bene che remiamo controcorrente, conosco la politica del mio Paese, ma la pace non ha alternative. Un altro messaggio importante che si è inteso dare con la marcia, è che ognuna/o può fare qualcosa per rafforzare il dialogo. Guai a pensare: cosa posso fare io, singola persona, per raggiungere qualcosa che neanche chi aveva il potere, presidenti, primi ministri…è riuscito a realizzare…Il discorso va ribaltato: nel proprio specifico, ognuno per ciò che può, è possibile far avanzare le ragioni della pace. Non c’è bisogno di essere un parlamentare o chissà cosa: parlare con i propri vicini, partecipare a iniziative di discussione, manifestare, sono modi concreti per dire anche io ci sono, e voglio portare il mio contributo. La pace non ammette deleghe”.

La pace ha un colore politico?

Assolutamente no. A dar vita alla marcia, sono state donne di sinistra, di centro e di destra. La pace è trasversale. Ciò che importa è che nessuna si sia sentita detentrice di una verità assoluta che deriva da una professione di fede religiosa o di credo politico. La pace è incontrarsi a metà strada. E’ un cammino difficile ma vale la pena imboccarlo”.

(ha collaborato Cesare Pavoncello)