Ormai sono 600mila i musulmani in fuga da Myanmar. Ecco la ricostruzione delle origini di un odio antico, che risale addirittura alla seconda guerra mondiale

L’odio verso i Rohingya continua. Continua anche il loro esodo. Continuano a scorrere a fiumi anche le parole che istigano all’odio ed arrivano dalle bocche dei monaci arancioni. Parole che rimangono fisse e ferme sugli schermi dei computer, negli account dei loro social network.

«Loro se ne sono andati. Noi ringraziamo il Buddha per questo. Loro non appartengono a Myanmar, non sono mai appartenuti a questo posto. La loro fertilità gli ha fatto sopraffare la popolazione buddista. Hanno rubato la nostra terra, il nostro cibo, la nostra acqua». Queste sono le parole del monaco a capo del monastero di Sittwe, capitale dello stato di Rakhine. Quasi tutti i monaci buddisti della regione hanno iniziato da tempo la loro battaglia per disumanizzare agli occhi della popolazione l’etnia in fuga. Nei loro video estremisti li chiamano “serpenti” o “animali, peggiori dei cani” e così poi ripetono fuori dai templi i loro fedeli. Il monaco di Sittwe ripete quello che ha sentito dall’ispiratore di tutto questo.

Si riferiscono a lui con l’epiteto di “venerabile”, ma si chiama in realtà Ashin Wirathu. È da più di dieci anni che istiga all’odio, per questo è stato in prigione nel 2013, ma le cassette e le registrazioni con le sue prediche si diffondono di paese in paese, ancora più di prima. Wirathu è considerato l’ispiratore del genocidio rohinga, benedice Trump per il muslim ban e maledice la Merkel per aver accolto i profughi musulmani di guerra.

Per gli stupri, gli omicidi e gli incendi dolosi, per le persecuzioni, sono già 600mila i membri della minoranza musulmana scappati dall’ultimo agosto. Le Nazioni Unite, per la velocità e i numeri dell’esodo, hanno paragonato la fuga di questa etnia alla questione del genocidio in Rwanda. Tra le strade di Myanmar e di Rakhine però la questione è diversa. Incendi e morte, – gli appartenenti di questa minoranza -, se li provocherebbero da soli: insomma sarebbe un genocidio organizzato da loro stessi. «Sono i musulmani stessi ad uccidere i musulmani, in nessun caso i nostri militari bersagliano i civili» dice Win Mayat Aye, il ministro per il welfare della lega democratica di Rakhine.

Quella del monaco, quella del politico assomigliano alle versioni di tutti gli altri. Alla narrativa ufficiale del governo, che è molto simile a quella tenuta dall’opposizione, che non è diversa da quella che gli altri leader religiosi predicano. Una narrativa secondo cui i Rohingya non hanno diritto a vivere, perché non seguono la religione buddista, stanno tentando di conquistare le simpatie del resto del mondo con le loro sventure. I social media aiutano a coadiuvare, diffondere e rafforzare questa idea mentre le condizioni in cui versano i profughi si fanno disperate.

Il conflitto tra buddisti e musulmani nella regione risale alla seconda guerra mondiale, quando gli abitanti di Rakhine decisero di allearsi ai giapponesi, i Rohingya con i britannici. Quando la giunta militare prese il potere a Burma, – un altro nome di Myanmar -, con l’indipendenza nel 1948, rimase a governare fino al 1962 e cominciò a deprivarli dei loro diritti. Dopo le restrittive leggi sulla cittadinanza introdotte, i Rohinga cominciarono a diventare apolidi, uno dopo l’altro, fino al 1982. Il nome stesso che li definisce oggi gli è stato sottratto: il governo li chiama bengalesi, ovvero come i cittadini di un altro Stato. Chi li insulta pubblicamente, invece, si riferisce a loro con il dispregiativo di “kalar”, un epiteto usato per definire i musulmani di Myanmar. Il premio Nobel San Suu Kyi questa settimana, descrivendoli, ha usato la stessa espressione: “coloro che se ne sono andati in Bangladesh”.

Questo esodo, non fuori, ma dentro la regione, è una buona notizia, da pubblicizzare: «tutto quello che imparano nelle loro scuole è come uccidere, come attaccare. È impossibile vivere con loro nel futuro». È meglio che se ne vadano, «i kalar qui non sono benvenuti, sono violenti e si moltiplicano come pazzi, con tutte le loro mogli e figli», ha detto l’amministratore del villaggio Ma Kaw, dove non è rimasto neppure un rohinga. Si chiama Aye Swe e ha detto di non averne mai conosciuto uno in vita sua, ma «grazie a Facebook ho informazioni vere su Myanmar».