È alto il rischio astensione nella regione sempre più sprofondata nella crisi, tra povertà in aumento, sanità e scuola abbandonate, e clan ancora potenti. La voce di chi si occupa di antimafia nei territori: «Basta continuare a votare i soliti, occorre una nuova politica per cambiare l’economia e portare lo sviluppo»

Sfiducia: è la parola più ricorrente in vista delle elezioni regionali siciliane del 5 novembre, un sentimento talmente diffuso da far temere che, come già nel 2012, la maggioranza dei cittadini dell’isola possa astenersi. «Come cinque anni fa, la Sicilia potrebbe ritrovarsi con un governatore votato dal 15 per cento degli aventi diritto», dice Totò Cernigliaro, presidente della cooperativa Solidaria di Palermo, ideatrice del Premio Libero Grassi e da oltre un ventennio attiva nella promozione della cultura antimafia. Cinque anni fa, infatti, Rosario Crocetta, fu eletto con poco più di 600mila voti su quattro milioni e mezzo di aventi diritto, il 53 per cento dei quali preferì disertare le urne. «Che credibilità può avere un simile presidente della Regione? – chiede, retorico -. Però è possibile che succeda ancora, se consideriamo che l’operato di Crocetta e dei suoi due predecessori, Cuffaro e Lombardo, è stato meno che sufficiente. No, non mi aspetto nulla di buono», puntualizza, sconsolato.

Cinquantottomila disoccupati in più nel 2016, undicimila giovani emigrati, economia agonizzante, povertà in aumento. E ancora: sono raddoppiati i tempi d’attesa delle prestazioni sanitarie, le strutture scolastiche sono fatiscenti, i fondi destinati alla cultura sono stati dimezzati, strade e autostrade sono inadeguate, i treni soppressi, i ponti crollano come fossero di cartapesta. E le mafie a condizionare economia, società e politica. A ogni livello. Basti pensare che Cuffaro e Lombardo sono stati condannati (il secondo è in attesa della Cassazione) per rapporti coi clan.

«Sono sfiduciato, i siciliani sono sfiduciati perché non si riconoscono in questi politici, ormai gli stessi da trent’anni», scandisce l’editore e poeta Angelo Scandurra. «Sfiducia», gli fa eco Emanuele Feltri, il giovane contadino della Valle del Simeto da anni bersagliato dalla mafia dei pascoli. «Non sono ottimista», ammette Giovanni Caruso del Gapa di Catania, l’associazione che da trent’anni opera nel quartiere San Cristoforo, dove sono insediati i due clan di Cosa nostra etnea, quello dei Santapaola-Ercolano e quello dei Mazzei. Analoga sfiducia permea le parole di Nadia Furnari, la caparbia attivista di Milazzo che nel ’93 ha fondato l’Associazione nazionale antimafie Rita Atria, la giovane testimone di giustizia suicidatasi una settimana dopo l’uccisione del giudice Paolo Borsellino e degli agenti della scorta, considerata la settima vittima della strade di via D’Amelio.

«In Sicilia – esordisce Furnari – non si investe in sviluppo, in infrastrutture, si preferisce continuare a militarizzare il territorio e favorire le trivellazioni petrolifere, cioè si privilegiano scelte economiche improduttive a discapito della peculiarità dei territori a vocazione agricola e turistica». «Sì, potremmo vivere di turismo – concorda Scandurra – ma preferiamo cementificare le coste e distruggere splendidi monumenti naturali come la Scala dei Turchi, nell’agrigentino». Angelo Scandurra vive a Valverde, piccolo comune a nord di Catania di cui è stato sindaco dal 1994 al 2003, «il sindaco poeta» lo chiamavano. «Amministrare è un impegno gravoso ma, tutto sommato, facile – sostiene -, reso complicato dai giochi di potere, dal fatto che si opera per il partito invece che per i cittadini, o per se stessi. Pontificano ma non fanno e, sciascianamente, mi fanno temere che noi siciliani siamo irredimibili. Dicono che ci sia la crisi della politica, a me pare che la crisi riguardi la qualità del personale politico».

Un aspetto, quest’ultimo, sul quale concorda Cernigliaro: «Venticinque anni fa ci hanno detto che il problema era la legge elettorale proporzionale con le preferenze, oggi mi pare evidente che il problema fosse e sia la qualità del personale politico, che nel frattempo è peggiorata grazie all’uninominale e all’elezione diretta incentrata sulla concezione di “un uomo solo al comando”. Che, come nell’ultima legislatura, non avrà una maggioranza all’Ars e, per governare, dovrà affidarsi ai “traditori”, ad eletti che cambiano schieramento, perché ormai i partiti contano poco, contano i singoli, mossi dal principio “Io mi candido”». Cinque anni fa, il centrosinistra elesse 30 dei 90 componenti dell’Ars, ma dopo un anno le migrazioni dal centrodestra avevano consegnato una risicata e variegata maggioranza a Crocetta. Prevedibile che anche stavolta il copione si ripeta. Le premesse ci sono tutte: «Il caso più evidente – riprende Cernigliaro – è un candidato catanese che due mesi fa tappezzò la città di manifesti con la sua faccia e l’annuncio del proprio sostegno a Micari, del centrosinistra, ma dopo la presentazione delle liste li ha sostituiti con altri per Musumeci, del centrodestra». Il caso citato da Cernigliaro è quello di Riccardo Pellegrino, consigliere comunale a Catania e candidato con Forza Italia, che proprio Musumeci, da presidente della Commissione antimafia regionale, ha menzionato nella sua relazione su mafia e politica inviata anche all’Antimafia nazionale, a causa di un fratello (Gaetano) arrestato per mafia e per gli stretti rapporti d’amicizia con Carmelo Mazzei, studente di teologia e figlio del boss Nuccio.

Era il 30 aprile 2014 quando, in seguito alle inchieste del quotidiano online LiveSicilia sul clan Mazzei, Pellegrino accompagnò il figlio del boss nella redazione coordinata dal giornalista Antonio Condorelli, che intanto aveva allertato la Guardia di Finanza. «Mi sono servito di Riccardo… Sono il figlio del signor Mazzei di cui parlate sul giornale, del latitante», si legge nell’articolo dello stesso Condorelli. Pellegrino, dal canto suo, ricostruisce il giornalista, «auspica il ritorno dei vecchi boss nei quartieri di Catania e si dichiara orgoglioso di vivere a San Cristoforo, “il quartiere storico dei Santapaola”, sottolinea, “dei Santapaola come dei Mazzei”», si corregge il consigliere comunale indicando il proprio accompagnatore. Poi, riferendosi al quartiere, aggiunge: «Noi abbiamo soltanto la microcriminalità organizzata, non si può parlare più di spessore mafioso, perché se in campo ci fossero state persone di spessore, mafiosi, guarda che tutto questo manicomio non c’era».

Musumeci aveva segnalato quattro consiglieri comunali etnei, nella sua relazione, ora tre sono candidati all’Ars nelle liste che lo sostengono, con altri «impresentabili», uno dei quali, Antonello Rizza, sindaco di Priolo (Siracusa) di Forza Italia, è stato arrestato a metà ottobre per una vicenda di appalti truccati che va ad aggiungersi ai quattro procedimenti giudiziari che già lo coinvolgevano.

«La nostalgia per le regole mafiose esternata da Pellegrino», rileva Giovanni Caruso, che col suo Gapa opera proprio a San Cristoforo, centro storico di Catania, «ci dice quale sia qui la posta in gioco, in un quartiere in cui lo stato sociale lo garantiscono i clan, per una sorta di delega non scritta». Povertà, disoccupazione, evasione scolastica record, emergenza abitativa, microcriminalità, degrado urbano e voto di scambio. Quest’ultimo, come contropartita del welfare.

Se dalla città ci spostiamo in campagna, verso la Piana e la Valle del Simeto, la sostanza dei fatti non cambia o muta di poco: istituzioni assenti e mafia. Rurale, non urbana, ma sempre mafia. Emanuele Feltri lo sa, in passato ha subito minacce, intimidazioni, raccolti bruciati, ma preferisce non parlarne, preoccupato perché «la nostra attività rischia di fallire: siamo agricoltori, contadini, ma il settore è volutamente abbandonato a se stesso a causa di politiche europee e nazionali che favoriscono le multinazionali e il latifondo». Malgrado ciò, con altri contadini come lui è riuscito a creare una rete di condivisione e auto-organizzazione e rivendica il concetto di «sovranità alimentare e la possibilità di decidere le proprie politiche agricole». Per meglio farsi comprendere fa l’esempio del grano canadese che, in seguito all’accordo di libero mercato con la Ue rischia di soppiantare il nostro, malgrado l’acclarata tossicità. «C’è bisogno di una diversa politica dello sviluppo: il 75 per cento dei prodotti alimentari arriva dall’estero; c’è bisogno di infrastrutture, i Consorzi di bonifica non ricevono più contributi statali e non erogano più l’acqua, che siamo costretti ad acquistare dai privati, a prezzi proibitivi; i fondi Ue e i Piani di sviluppo rurale sono pensati per multinazionali e latifondisti che, fra l’altro, sfruttano i migranti facendoli lavorare in nero. Qui ormai c’è da lavorare anche culturalmente per risvegliare nei contadini quella coscienza di classe che non esiste più, ma che – conclude Feltri – è fondamentale per non restare isolati».

«Quando vogliono, le cose le fanno – sottolinea Nadia Furnari -, basti pensare a come, in occasione del G7 di Taormina, abbiano realizzato un eliporto in pochi giorni, mentre le strade siciliane restano mulattiere. L’acqua, malgrado la vittoria referendaria, resta in mano ai privati e la Regione nemmeno fiata sullo scandalo dei beni confiscati», gestiti in maniera personalistica (com’è successo a Palermo), o rimasti nella disponibilità dei mafiosi a cui erano stati sequestrati (com’è emerso in una recente inchiesta della procura di Trapani). «Bisogna svincolare l’economia dalle mafie – esorta Furnari -, renderla pulita e libera. Sotto questo aspetto, le elezioni potrebbero segnare una svolta: se le persone mettono una croce sulla scheda coi criteri di sempre, poi non possono lamentarsi se i propri figli sono costretti a emigrare».

Lo Speciale SICILIA di Sebastiano Gulisano è tratto da Left n.43

SOMMARIO ACQUISTA