Ramadan è terminato da tempo, ma le polemiche che scoppiano ogni anno sugli schermi televisivi arabi si sono trascinate ben oltre la fine del mese sacro dell’Islam, tradizionalmente periodo di grandi investimenti pubblicitari su programmi che devono tenere il pubblico incollato alla Tv per un prime time estesissimo, dal pasto di rottura del digiuno al tramonto (iftar) a quello poco prima dell’alba (suhur). La sfida a contendersi l’attenzione del pubblico arabo porta da sempre le reti satellitari – ormai centinaia – ad investire su prodotti innovativi, se non addirittura provocatori per le tematiche affrontate.
«Ramadan é come il Super Bowl per 30 giorni di fila», ha spiegato Mazen Hayek, direttore marketing di Mbc Group, una delle reti panarabe di maggior successo. Che quest’anno si é aggiudicata il piatto televisivo più discusso della dieta di Ramadan: si chiama Corvi neri (Gharabeeb Soud) ed é una serie a puntate (musalsal) che parla di Isis. Recensita addirittura dal New York Times prima ancora che sulla stampa araba – e prima che andasse in onda – la fiction é ambientata nella capitale dell’autoproclamatosi “Stato Islamico” (Daesh, nel suo acronimo arabo), Raqqa.
Nella scena iniziale vediamo un gruppo di poco più che bambini che chiedono ad un barbuto giovane appoggiato ad un albero, in una sperduta e squallida campagna di quello che dovrebbe essere il “califfato”: «Come é fatto il paradiso?». L’uomo si limita a sorridere. «E come facciamo ad andarci», osa ad un certo punto chiedere uno di loro. «In macchina?», «In barca?», gli fanno eco i compagni. L’uomo sorride sempre e, all’ennesima battuta di un bambino – “Lo so! Ci porteranno in aereo, perché il paradiso é su, nel cielo» -, mostra una cintura esplosiva: «é così che si va in paradiso».
Altre puntate vedono per protagoniste donne di tutti i tipi: un’ex danzatrice egiziana in cerca del figlio arruolatosi nelle file di Daesh; una rifugiata siriana che invece il figlio l’ha perso per freddo e stenti in un campo profughi; una donna saudita in fuga con i suoi due piccoli dopo aver ucciso il marito colpevole di averla tradita; persino due giovani ma non troppo avvenenti fanciulle alla ricerca quasi disperata di marito. Presto si renderanno tutte conto, a loro spese, che l’Isis offre solo miraggi, oltre che violenza inaudita: come quella con cui due giovani figli vengono strappati alle madre ed immessi in programmi di operazioni suicide dove sedicenti soldati di Daesh li sottopongono, fra le altre cose, ad abusi e torture sessuali.
In Corvi neri ci sono le faide fra vari “emiri” che si contendono il potere a Raqqa, e i loro intrighi sentimentali, ritratti come se fossimo dentro Game of Thrones. Ci sono giornalisti infiltrati nel califfato che cercano la verità – o la fama. E c’é il jihad al nikah (jihad del sesso) e la tratta delle schiave yazidi, argomenti che tanto hanno fatto discutere sulla stampa nostrana. In realtà c’é ben poco d’altro in questa specie di concentrato di stereotipi sulla vita al tempo del califfato. Secondo il portavoce di Mbc gli autori avrebbero lavorato per ben 18 mesi alla serie, spendendo un budget totale di 10 milioni di dollari – una cifra da capogiro per una fiction araba – ed intervistando persone sopravvissute alla violenza Isis e fuggite da Raqqa e Mosul.
Eppure nulla traspare di questa supposta ricerca, nulla di diverso rispetto alle banalità che leggiamo ogni giorno sulla stampa – Daesh é barbaro, violento, non guarda in faccia a nessuno, nemmeno a donne e bambini -. Corvi neri non aggiunge niente a tutto ciò, né prova a proporre una visione araba del terrorismo made in Isis. Nemmeno si spinge ad attaccare Daesh dal punto di vista ideologico e teologico, limitandosi ad una specie di timido e semplicistico ribadire che l’Islam “vero” é contro il terrorismo, e che i terroristi hanno travisato la religione sfruttandola per i propri fini materiali e di potere. Dopo venti puntate (stranamente Corvi neri si é conclusa prima dei tradizionali trenta episodi di Ramadan), ed un concentrato di stereotipi su terroristi, donne, sesso, violenza, c’è da chiedersi perché Mbc si sia imbarcata in un’operazione del genere, considerata la sua natura di rete di intrattenimento per famiglie, che sembra farsi autogol presentando un prodotto del genere durante il mese sacro.
La risposta va cercata nella geopolitica, non certo nell’audience. Nel marzo scorso, infatti, Ali Jaber, direttore del gruppo panarabo di stanza a Dubai ma di proprietà saudita, é volato a Washington, invitato dal segretario di stato americano Rex W. Tillerson. Il meeting d’eccellenza ospitava una coalizione globale di cervelli impegnati nella lotta al terrorismo: diplomatici, politici e personalità dei media come Jaber, notissimo in tutto il mondo arabo per il suo ruolo di giudice nel talent show Arabs got talent. In un discorso facilmente reperibile in rete, Tillerson ha sottolineato il ruolo chiave dei partner musulmani – Arabia Saudita ed Egitto in testa – nel combattere il messaggio di terrore di Daesh, anche mediaticamente. Poi ha invitato Jaber a spiegare in dettaglio come “ottenere la vittoria” su questo versante.
Poco dopo la Annenberg Foundation Trust at Sunnylands, che organizza esclusivi meeting, è volata in trasferta a Dubai per celebrare l’unione fra media panarabi di proprietà saudita e strategia mediatica anti-terrorismo spinta da Washington. Trump sembra agire in continuità con la linea Obama, che sponsorizzò la campagna “Think Again Turn Away”, partita in grande stile per controbilanciare la propaganda online di Daesh ma finita quasi subito nel dimenticatoio. Stavolta il Dipartimento di Stato ha pensato di includere un partner arabo nel progettare i media anti-Isis, provando così a sottrarsi ad accuse di unilateralismo e di riduzione di una questione complessa come il terrorismo ad una sfilza di stereotipi.
Ma Corvi neri fa esattamente questo, massacrando il pubblico arabo con un polpettone di banalità e violenza gratuita. Questa estate la nemica giurata dei sauditi, Al Jazeera, ha criticato la serie, chiedendosi come sia possibile pensare di attaccare Daesh mostrando donne musulmane in cerca di sesso. Ali Jaber ha immediatamente incolpato la rete di sostegno al terrorismo – la stessa accusa che l’Arabia Saudita ha mosso al Qatar, la scusa numero uno per giustificare l’isolamento in cui il paese é stato costretto dai “fratelli” del Golfo -. Mentre i media occidentali non fanno che sperticarsi in lodi per il coraggio di Mbc, e per la scaltrezza nell’affrontare il tema Isis in una fiction di Ramadan, che probabilmente però hanno visto soltanto in versione trailer di due minuti, l’unico materiale sottotitolato in inglese a fronte di venti puntate accessibili soltanto a chi parla l’arabo. Anche a livello mediatico, dunque, in un’apparentemente innocente fiction di Ramadan, l’alleanza Stati Uniti – Arabia Saudita sembra dare i suoi – pericolosi – frutti.