Il 2 novembre ricorrono i 100 anni della Dichiarazione Balfour, che sancì l’impegno del governo britannico per la formazione di un “focolare nazionale ebraico in Palestina”. Alla base del documento ragioni storiche e interessi politici. Ma anche l'intuizione di uno scienziato

A volerla raccontare in modo stringato, questa storia inizia con un batterio e finisce con la fondazione dello stato di Israele. In mezzo ci sono aspirazioni, progetti, congressi, accordi più o meno ufficiali, tanta politica, un po’ di chimica, due conflitti mondiali. E un foglio, scritto a macchina, e parafato con una firma non troppo leggibile. Una dichiarazione resa dall’allora ministro degli Esteri britannico, lord Arthur James Balfour, al pari titolo Lionel Walter Rothschild, uno dei rampolli della nota famiglia di banchieri. Il documento, che reca la data del 2 novembre 1917, consta di appena 16 righe. Per la precisione di 122 parole, che hanno cambiato per sempre la storia della Palestina e del Medio Oriente, incidendo in profondità su quella del mondo intero.

La Dichiarazione Balfour, di cui ricorre tra pochi giorni il centenario, è un esempio concreto di come la storia non si scriva solo con il sangue e con il ferro, ma anche, e a volte soprattutto, con l’inchiostro. Il breve testo che sanciva l’impegno ufficiale dell’His Majesty’s Government di Londra per la costituzione di un focolare nazionale ebraico (“a national home for the Jewish people”, in lingua originale) in Palestina è il risultato di un coacervo di fattori, cause e interessi, su cui gli storici continuano a interrogarsi e a dibattere ancora oggi. Se diversi resoconti contemporanei descrissero quello di lord Balfour come un gesto nobile e disinteressato, ispirato da un certo “romanticismo” biblico e dalla simpatia nei confronti di un popolo antico e spesso oppresso al quale si voleva offrire la possibilità di tornare nella propria patria ancestrale, gli studi successivi si sono preoccupati di indagare le ragioni ultime e concrete della decisione dell’Impero Britannico, maturata in un contesto storico estremamente complesso. Da una parte Londra era interessata da tempo alla Palestina, che era da secoli sotto l’influenza ottomana e che rappresentava un nodo strategico importante lungo le vie di comunicazione tra la Gran Bretagna e le zone più orientali dei suoi possedimenti. Dall’altro il governo di Carlo V era sceso in guerra nel 1914 contro gli Imperi centrali (Germania, Impero Austro-Ungarico e Impero Ottomano), al fianco dell’Impero Russo, della Francia e, a partire dal 1915, dell’Italia.

Per comprendere le dinamiche che portarono alla Dichiarazione Balfour bisogna però tornare indietro di 17 anni rispetto allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, quando, nell’agosto del 1897, a Basilea, si era tenuto lo storico congresso che aveva segnato la nascita del sionismo politico di Theodor Herzl. Il giornalista, scrittore, avvocato e politico ungherese naturalizzato austriaco ebbe molti contatti con il governo britannico per la fondazione di uno Stato che potesse raccogliere gli ebrei sparsi in giro per il mondo. Scartata l’ipotesi di Cipro, considerata da Londra una base strategica irrinunciabile al centro del Mediterraneo, si ragionò su El Arish, sulla costa mediterranea della Penisola del Sinai, e sull’Argentina, dove era presente un’ampia comunità ebraica. Alla fine a spuntarla fu il cosiddetto Uganda Scheme, che prevedeva l’assegnazione di un’area di circa 15mila chilometri quadrati, localizzati però a causa di un’incomprensione non nel territorio di Kampala, ma in Kenya. Con l’appoggio di Londra lo Stato d’Israele avrebbe dunque visto la luce in una zona situata nei pressi della Rift Valley, a Nord Ovest di Nairobi. La prematura morte di Herzl, scomparso nel 1904 a soli 44 anni, modificò però le carte in tavola. Nel corso del settimo congresso, l’anno successivo, il movimento sionista decise infatti di concentrare la propria attenzione sulla Palestina.

Intanto, nel 1903, dalla Bielorussia era arrivato in Gran Bretagna Chaim Weizmann, futuro primo presidente dello Stato d’Israele (a lui Einstein scriverà: “Deve essere difficile essere l’eletto del popolo eletto”). Trasferitosi dopo aver ricevuto l’incarico come lettore di chimica all’università di Manchester, lo scienziato aveva già da tempo iniziato a interessarsi di politica, saltando, a causa di una coincidenza persa, il congresso sionista a Basilea, ma partecipando a tutte le successive riunioni. È con l’entrata in scena di Weizmann che la storia dello stato di Israele si fonde indissolubilmente con la chimica e la politica scende a patti con i processi di fermentazione. La sua conoscenza delle proprietà della materia fu un reagente fondamentale in un processo all’origine della quale stava un amalgama indissolubile di interessi politici, ragioni storiche, esigenze belliche e necessità economiche.

Uno dei suoi primi incontri con le alte cariche del His Majesy’s Government avvenne nel 1906. In quell’occasione fu proprio lord Balfour, che a quel tempo rivestiva la carica di primo ministro, a domandare allo scienziato, la cui influenza negli ambienti sionisti era in rapida crescita, per quel motivo gli ebrei avessero rifiutato l’Uganda Scheme. Weizmann rispose spiegando che qualsiasi deviazione dalla Palestina sarebbe stata una forma di idolatria. E chiedendo a sua volta: “Lord Balfour, se io le proponessi di lasciare Londra per Parigi cosa mi risponderebbe?”. “Ma noi abbiamo già Londra!”, replicò il capo del governo. “È vero”, ribatté a sua volta il chimico, “però noi avevamo Gerusalemme quando Londra era una palude”. Il contributo di Weizmann alla causa sionista divenne fondamentale nel 1916, quando fu nominato direttore dei laboratori dell’Ammiragliato britannico e iniziò a condurre esperimenti sulla fermentazione aceton-butilica sotto la guida di James Dewar e Fredrick Abel, chimici di grande esperienza che avevano sintetizzato la cordite, una sostanza esplosiva fondamentale per l’industria bellica. Molto meno costosa della polvere da sparo, per essere prodotta la cordite richiedeva tuttavia grandi quantità di legname, impossibili da reperire in un momento in cui infuriava la più devastante guerra che il mondo avesse mai conosciuto. Le insistenti richieste di cordite avanzate dal sottosegretario alla Royal Navy, un ancora giovane Winston Churchill, poterono essere soddisfatte solo grazie a una brillante intuizione di Weizmann, che utilizzò il batterio Clostridium acetobutylicum per far fermentare gli zuccheri dell’amido del mais e ottenere esplosivo a bassissimo costo.

Dopo un simile successo lo scienziato ebbe gioco facile a sfruttare l’influenza che si era conquistato all’interno del governo britannico per sostenere la causa del suo popolo. Tuttavia la Dichiarazione Balfour non può essere considerata come un suo personale successo, giacché alla sua stesura contribuirono molteplici circostanze pratiche e storiche. Nello stesso anno in cui Weizmann assumeva la direzione dei laboratori dell’Ammiragliato Londra e Parigi avevano firmato l’accordo segreto Sykes-Picot (dal nome dei diplomatici che lo negoziarono), in base al quale avevano definito le rispettive zone di influenza in Medio Oriente, arrivando a un compromesso su un’amministrazione internazionale per la Palestina, il controllo della quale era da entrambe considerato strategico. In questo contesto l’appoggio inglese alle aspirazioni sioniste fu determinato dalla volontà di garantirsi una presenza preponderante in Palestina e di marginalizzare i francesi; dal tentativo di spingere la comunità sionista russa a una mobilitazione per evitare che il loro Paese si ritirasse dalla guerra; dalla ricerca di un sostegno da parte della comunità ebraica statunitense finalizzato a ottenere un intervento più incisivo di Washington nel conflitto; dall’idea, del tutto errata, che i sionisti avessero una notevole influenza negli “ambienti importanti” e parlassero in nome dell’intera diaspora ebraica. E infine, fattore estremamente rilevante, dalla necessità, non solo di Londra ma di tutti gli Alleati, di anticipare il tentativo portato avanti dal governo tedesco di attirare le simpatie del movimento fondato da Herzl, in modo da garantirsi un appoggio per la prosecuzione dello sforzo bellico. Non a caso la dichiarazione che nel 1917 l’allora ministro degli Esteri lord Balfour rese a Lionel Walter Rothscild fu supportata da una decisione sia orale che scritta da parte americana, francese, italiana e del Vaticano.

La discussione per arrivare al testo finale della dichiarazione fu abbastanza complicata. I sionisti chiedevano che si utilizzasse l’espressione “ricostruzione del focolare nazionale ebraico”, in luogo di “creazione di un focolare nazionale ebraico”. Su questo punto, però, gli inglesi furono irremovibili. Si arrivò così alla stesura attuale, che fu successivamente incorporata nel Mandato britannico sulla Palestina, approvato dal Consiglio della Società delle Nazioni il 24 luglio del 1922. Da quel momento trascorreranno altri 25 anni prima di arrivare alla risoluzione 181 delle Nazioni Unite (di cui il prossimo 29 novembre ricorrono i 70 anni), che è stata determinante per la fondazione di uno Stato ebraico in Palestina.