Sabato 16 settembre, attraverso in bici il mercato rionale del mio quartiere, l’Alberone a Roma. Sono le tre, le bancarelle del mercato hanno chiuso da poco ma in strada, in mezzo ad un tappeto di frutta schiacciata e altri resti vegetali, ci sono due ragazzi, un uomo e una donna, Viola e Francesco, con la pettorina gialla ad alta visibilità, che distribuiscono l’invenduto. Frutta, verdura, anche pane e qualche formaggio.
Sono curioso e mi avvicino, e come altri non capisco subito, e infatti dopo aver scelto la merce faccio la domanda stupida: “Quant’è?”. Mi spiegano che loro lo stanno regalando, l’invenduto del mercato, a chiunque passi e lo chieda, nella speranza di costruirsi una “clientela” e di intercettare i bisognosi.
Chi sono i bisognosi? Chiedo. «I migranti. Ma anche gli indigenti, i pensionati che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese, e che vivono per lo più dentro casa, che non hanno Internet. Ecco perché abbiamo bisogno di farci conoscere».
Riavvolgiamo il nastro.
Tutto parte da Riace, piccolo comune calabrese della Locride famoso per le politiche di accoglienza che mette in atto da anni il sindaco, Domenico Lucano. A Riace c’è il Festival delle Migrazioni dove Viola conosce Paolo Hutter, ex assessore del comune di Torino che ha lanciato alcuni mesi fa, nel grande mercato torinese di Porta Palazzo, un progetto di recupero del cibo invenduto che si chiama Ecomori (a Torino i “mori” sono i neri) coinvolgendo sia italiani che stranieri. «Dopo il successo di Torino – racconta Viola – il progetto è stato duplicato a Milano ma, forse anche per la pigrizia e l’individualismo che contraddistinguono la capitale, nel caos in cui la città si trova, Paolo mi ha confidato che a Roma il progetto non riusciva a partire».
A Roma Viola si occupa da anni di migranti come volontaria del Baobab Experience, associazione per l’accoglienza dal basso dei migranti in arrivo nella Capitale, e si mette in testa di coltivare una “cultura del non-spreco”, aprendo un banchetto solidale. Sceglie una zona “tranquilla”, non la frontiera selvaggia tipo la stazione Termini, dove si rischia semplicemente di essere presi d’assalto, creare caos e finire tutta la merce in tre minuti senza essersi in realtà fatti conoscere.
«I valori ecologici e solidali dell’anti spreco e della collaborazione autoctoni/migranti che si impegnano per una società più giusta ed umana hanno risuonato in me ed ho quindi deciso di lanciarmi in questa impresa», racconta. «Ho scelto il mercato dell’Alberone ed ho passato qualche giorno a girare per i banchi del mercato per conoscere personalmente i venditori, parlare loro del progetto e cercare di capire qual è il tessuto sociale della zona e che tipo di risposta avremmo potuto avere. Sono molto contenta, non tanto per i numeri quando per la qualità dell’esperienza che stiamo cercando di far nascere. Molti commercianti, alcuni dei quali all’inizio erano diffidenti, si sono mostrati entusiasti dell’idea e ci hanno donato il loro invenduto esortandoci a continuare. Ci sono stati dei momenti molto intensi in cui le persone commosse ci hanno ringraziato calorosamente per il dono fatto loro. Ci sono persone che raccolgono il cibo da terra e credo che riceverlo dalle mani di una persona che lo porge con un sorriso ed una parola dia una dignità diversa a quel momento. Ci sono persone che pur in difficoltà economica non raccoglierebbero mai il cibo da terra ma che al banchetto solidale si avvicinano senza vergogna. E ci sono poi persone che potrebbero acquistare i prodotti ma che per una loro filosofia di vita danno valore all’anti spreco e preferiscono della frutta meno bella e forse troppo matura a quella lucida del supermercato. Il progetto a Roma è appena partito e dobbiamo farci conoscere ma negli sviluppi futuri c’è l’impegno di trovare degli sponsor, dei donatori o delle borse lavoro per dare almeno un piccolo rimborso spese ai rifugiati che ci aiuteranno».
Li raggiungo qualche sabato dopo e infatti con i due, Viola De Andrade Piroli e Francesco Fanoli, antropologo, a dare una mano c’è anche Yacouba Sangarè, arrivato ancora minorenne in Italia dalla Guinea un anno fa, dopo quattro anni di viaggio attraverso Libia e Sicilia, fortunatamente, scopro, alla larga dai famigerati centri di detenzione libici. Scopro poi che pesano meticolosamente la merce da distribuire, e fanno più di un quintale, che poi è il quantitativo medio raccolto ogni sabato.
Sembrano ancora non ben conosciuti. Si avvicina qualcuno del Comitato di quartiere. Postiamo foto sui gruppi Facebook del quartiere, io sul mio profilo, e tocco con mano e mi sorprendo di quanto l’iniziativa piaccia e riscuota simpatia ed interesse. Io stesso suggerisco, tra una foto e l’altra, di andare a avvisare i ragazzi di colore che vedo sempre tristemente all’ingresso dei supermercati di zona a chiedere l’elemosina. Lo farò qualche sabato dopo, li acompagnerò fisicamente al mercato, scambiando con loro qualche frase in uno strano inglese.
Noto sempre un po’ di diffidenza da parte dei passanti. Dice Viola: «C’è gente che fa difficoltà ad accettare tutto, anche un sorriso, figurati le zucchine invendute regalate. Non capiscono».
Io penso che laddove c’è capitalismo, figlio di una certa razionalità, c’è incapacità di comprendere il dono. Le cose fatte per niente.