Nonostante l'approvazione della legge, la pratica del caporalato non è estirpata. Lo sostiene l'ultimo rapporto di Medici per i diritti umani sulla Puglia e la Basilicata: ecco come gli immigrati continuano a essere sfruttati

A un anno dall’approvazione in Senato del disegno di legge 2217 – che inasprisce il reato di intermediazione illecita e attribuisce la responsabilità del reato non solo al caporale ma anche al titolare dell’azienda agricola che utilizza manodopera sfruttata – il caporalato continua a essere una pratica pervasiva. A tre anni dall’istituzione, presso i Centri per l’impiego, degli elenchi di prenotazione dei lavoratori in agricoltura su base territoriale, nessuno dei migranti è stato assunto attraverso tali liste. Perciò i braccianti migranti impiegati, stagionalmente, in agricoltura vengono reclutati ancora attraverso il caporale, non solo per il trasporto sui luoghi di lavoro ma anche per l’organizzazione della giornata di lavoro che, secondo quanto si legge nel dossier TerraIngiusta, redatto da Medici per i diritti umani (Medu) il 26 ottobre 2017, rimane ancora grigio.

E nonostante il Contratto collettivo nazionale e quello provinciale del lavoro prevedano una sistemazione abitativa durante il periodo della raccolta, le condizioni alloggiative in Basilicata e in Puglia in quest’ultima stagione di raccolta del pomodoro, iniziata nella seconda metà di agosto e terminata a fine settembre, rimangono critiche: a parte l’unico centro di accoglienza temporaneo per lavoratori stranieri, aperto a Palazzo San Gervasio, in Basilicata – con una capienza insufficiente di duecentocinquanta posti a fronte di circa settecento persone presenti presso in insediamenti precari satellite e carente, oltretutto, di servizi essenziali – l’unica soluzione abitativa risultano i casolari abbandonati, sprovvisti di luce e acqua, attorno ai quali sorgono alloggi di fortuna «costruiti dai migranti con traversine di legno ricoperte da teli di plastica cuciti insieme ai tubicini di irrigazione», si legge nel dossier. Cartone o polistirolo recuperato dalle cassette delle piante di pomodoro rivestono l’interno dei ripari; alcuni generatori di corrente per garantirsi l’elettricità e solo due cisterne per attingere acqua non potabile. In Puglia, dopo lo sgombero del “Gran Ghetto” di Rignano Garganico, ad accoglierli è la pista in disuso dell’ex aeroporto militare di Borgo Mezzanone, dove mille e cinquecento migranti vivono in baracche costruite con materiali di risulta, lontane anni luce dai centri abitati e dai servizi primari. Nonché dalle istituzioni locali e dalla politica nazionale.

Così, in assenza di una dimora effettiva, che ostacola il riconoscimento del diritto all’iscrizione anagrafica, rimangono inevasi sia l’iscrizione al servizio sanitario sia il rinnovo dei documenti di soggiorno, del cui permesso, inizialmente, sono quasi tutti titolari e il cui mancato adeguamento preclude l’opportunità di avere un contratto di lavoro. Obbligatorio ma raramente concesso anche ai lavoratori regolarmente soggiornanti: tutti ricevono la comunicazione di assunzione che, tra l’altro, contiene un’indicazione solo approssimativa della durata del rapporto di lavoro, ma nessuno la busta paga – cosicché i contributi versati dal datore di lavoro possono arbitrariamente non corrispondere alle giornate effettivamente lavorate -; il 47 per cento (dei migranti intervistati da Medu) non conosce l’esistenza della disoccupazione agricola e quasi tutti non l’hanno mai percepita. Pagati quattro euro circa “a cassone”, dal quale il caporale decurta cinquanta centesimi, oppure a giornata con trentadue euro a fronte dei quarantotto stabiliti dal Contratto provinciale del lavoro. Il quale, tra le altre cose, stabilirebbe che, laddove non sia possibile l’utilizzo dei mezzi pubblici per raggiungere il luogo di lavoro e l’azienda non sia in grado di fornire un adeguato mezzo di trasporto, «ai lavoratori deve essere riconosciuta un’indennità a titolo di rimborso pari a due euro e venti centesimi da quattro a dodici chilometri, a tre euro e trenta centesimi da dodici a venti chilometri e a quattro euro e quaranta centesimi per tratte superiori a venti chilometri».

Un adeguamento legale che consentirebbe il superamento del caporalato che, invece, continua, anche per garantire la presenza dei braccianti evitando assenze ingiustificate e ritardi nella produzione, a occuparsi degli spostamenti dei migranti a fronte del pagamento di cinque euro al giorno. Giornate all’insegna di una fatica usurante pure in condizioni di totale insicurezza (visto che i presìdi relativi raramente vengono acquistati dai titolari delle aziende agricole): stress lavorativo, incompleta e scarsa alimentazione, insieme a precarie condizioni igieniche e abitative, le cause alla base delle più frequenti patologie riscontrate nei lavoratori migranti. E con buona pace di chi sostiene che siano gli untori dei bambini non vaccinati, non hanno mai riportato alcuna «malattia infettiva a carattere diffusivo di importazione».

Per approfondire leggi l’inchiesta “Caporalato, la rivoluzione mancata”, tratta da Left n.39