Un orologio digitale ancora funzionante. Una bambola di pezza attaccata a un salvagente. Una macchinina verde e alcune pagine del Corano. Una cartella piena di documenti in arabo. Qualche ciondolo. Persi dai migranti durante il loro viaggio migratorio e ritrovati nella terra di nessuno, ai confini di un mondo che li relega nei campi, gli oggetti possono raccontare la loro vita. Anche quando i campi vengono sgomberati e bonificati in un pugno di giorni, sotterrando cose e affetti, quasi a far sparire la loro storia.
Raccontarla, e in modo diverso, che non privasse gli immigrati della loro identità, è l’intento di Lost & Found, un progetto nato nel 2016, sostenuto da Advocate Europe, alla ricerca di quegli oggetti per riscattarli dall’unica condizione di massa di rifugiati con cui vengono solitamente accatastati.
«Dopo aver visitato il cimitero di Agrigento, in seguito al naufragio del 3 ottobre del 2013 – racconta a Left Christine Pawlata, la curatrice del progetto, insieme a Erika Tasini – e aver visto una sfilza di lapidi tappezzate di date e numeri, è nata l’esigenza di dover dare un nome e un’umanità ai migranti che, intraprendendo il viaggio, cercano una speranza». Partito dalla Serbia al confine con l’Ungheria, arrivando fino in Grecia, a Lesbo, Atene, Idomeni e verso il fiume Evros, il viaggio di Lost & Found, è un documentario work in progress fatto di incontri e di scambi, di storie e di ritrovamenti.
Grazie all’umanità di un medico legale di un ospedale di provincia ad Alexandropoli, al confine con il fiume Evros, il quale, per conservare la memoria dei rifugiati che hanno perso la vita, ha creato un archivio rudimentale (fatto di scatole di scarpe) delle cartelle cliniche e dei loro oggetti. E a quella generosità di chi è sopravvissuto che a Lesbo, a una coppia di inglesi che vive di fronte alla spiaggia dove sbarca la maggior parte dei barconi, un uomo, in cambio del loro aiuto, ha regalato una pietra: l’unica cosa che aveva portato con sé dalla Striscia di Gaza.
O il hijab che una donna siriana ha lasciato a un’abitante di Lesbo per averla accompagnata fino a Mitilene, nonostante il clima di intimidazione governativa. Il flauto che il barista della stazione dei treni di Idomeni, il più grande campo spontaneo d’Europa dopo la seconda guerra mondiale, ha ricevuto in cambio del prestito di alcune stoviglie per cucinare, era l’unico oggetto con il quale un musicista siriano viaggiava, dopo essere scappato dalla sua casa di Damasco in seguito ai bombardamenti.
«Alcuni rifugiati – spiega Christine Pawlata – partono senza portare alcunché perché, il più delle volte, hanno perso tutto prima; tanti, invece, portano con loro gli oggetti più cari, custodendoli gelosamente per non smarrirli fino a che, succede, durante le traversate, soprattutto in quelle dalla Turchia alla Grecia, vengono obbligati a buttarli. Se, poi, incontrano la polizia bulgara, una delle più violente e crudeli, vengono addirittura derubati». È quanto è successo ad Abasin, un ragazzo afghano, proveniente da una famiglia di farmacisti perseguitata dagli estremisti, derubato del suo zaino contenente gli unici due oggetti di cui era in possesso: un romanzo che voleva finire di leggere e l’orologio che suo padre gli aveva dato prima della partenza.
Lost & Found è, anche, una mappa interattiva con l’obiettivo di ritrovare i proprietari, restituire loro gli oggetti ritrovati e ricostruire la loro storia: la foto di un passaporto trovata nelle tasche di un paio di pantaloni sulla spiaggia di Lesbo, una fede nuziale appartenente a una giovane donna di Mosul, ritrovata in un campo per rifugiati di Belgrado, e una cartella, contenente una laurea in legge, alcuni certificati medici e delle lettere in arabo, trovata a Subotica in un edificio di un dutyfree abbandonato, quando l’Ungheria ha chiuso il confine con la Serbia: qualche numero di telefono scritto sui documenti ha permesso a Lost & Found di mettersi sulle tracce di chi l’ha persa.