Giuliano Pisapia suscitò nel 2011 grandi entusiasmi, venne eletto sindaco per meriti personali ma anche sulla spinta di un diffuso clima di insofferenza verso la padronale Letizia Moratti e verso i fasti del basso impero berlusconiano, poi amministrò Milano con stile sobrio e con correttezza. E nei tempi che corrono non è poco. Tutto quello che è accaduto dopo ci conferma che non basta essere un onest’uomo per saper fare politica. Nel libro dell’Esodo Mosè è descritto come “lento di parola e di lingua”.
Peraltro, l’eloquenza non è una virtù imprescindibile per esercitare la leadership; e non lo è neppure il carisma. In politica sono però indispensabili visione, determinazione e tempismo. Basta ricordare per sommi capi il percorso di Pisapia dal 2015 in poi per constatare la mancanza di tutte queste doti. Approssimandosi la scadenza delle elezioni comunali, tutti gli uomini del suo più stretto entourage dicevano che si sarebbe ricandidato. Invece, dopo lunga suspense mediatica, un bel giorno Pisapia annunciò che, «come aveva sempre detto», non intendeva ripresentarsi per un secondo mandato. A quel punto tutti ma proprio tutti erano convinti che fosse pronto ad indicare un erede da incoronare nelle primarie del centro-sinistra.
Invece passano i mesi e il delfino non si vede; così, approfittando del vuoto, si mettono in gara l’assessore Majorino, all’insegna della continuità con la giunta arancione, e il candidato di Renzi, Beppe Sala, all’insegna della discontinuità. Il sindaco esita, è combattuto, mostra di soffrire la prospettiva della normalizzazione renziana, ma non concede il gradimento al suo assessore. In extremis cala l’asso, candidando la vicesindaca Balzani. E così compie il miracolo: si separano le acque del “popolo rosso” e nelle primarie passa Sala con un misero 42 per cento. Una frittata talmente grottesca che ancora oggi più d’uno si domanda se non ci sia stato del metodo in quella follia…