A marzo scorso l’Istat l’ha definito "un fenomeno ampio, diffuso e polimorfo, che incide gravemente sulla quotidianità". Oltre 4,5 milioni di donne italiane hanno subito maltrattamenti fisici, atti sessuali non voluti, percosse, stupri commessi o tentati, quasi una donna su 4. A 8 milioni è stata inflitta violenza psicologica: svalutazione, sottomissione, minacce, controllo. Gli autori, molto spesso, sono i loro compagni, mariti o ex: uomini maltrattanti. Se nel resto d’Europa già dagli anni 90 si sperimentavano progetti d’intervento rivolti agli uomini che agivano violenza, in Italia il primo centro nasce solamente nel 2009, il Centro di Ascolto Uomini Maltrattanti di Firenze. Ora esistono in Italia circa 25 centri che si occupano di uomini autori di violenza nelle relazioni affettive, quasi tutti presenti nel Nord, praticamente nessuna esperienza nel Sud Italia. Si tratta ancora di esperienze molto giovani, spesso non finanziate e talvolta osteggiate. Il Centro di Ascolto Uomini Maltrattanti di Roma (CAM Roma), di cui sono responsabile, prende avvio nel 2014: a gestirlo, un piccolo gruppo di psicoterapeuti con una formazione specifica sulla violenza di genere agita dagli uomini. Non solo a Roma, ma in tutto il Lazio, non ci sono esperienze analoghe, mentre la domanda sociale e istituzionale si fa sempre più forte. In questi anni, però, c’è stato un cambiamento di mentalità e si è compreso che è priva di senso una strategia di contrasto alla violenza sulle donne che non preveda un serio e strutturato intervento rivolto anche agli uomini autori di violenza, in una logica in primo luogo preventiva. Finora il contrasto al fenomeno si è realizzato soprattutto accogliendo e aiutando le donne maltrattate, le quali portano una domanda emergenziale, la cui risposta deve essere immediata. E’ come il soccorso ai terremotati: essenziale, primario, urgente, ma non sufficiente. Il nostro lavoro con gli uomini autori di violenza, invece, non è mai un intervento di emergenza, ma si poggia sulla prevenzione dell’atto: oggetto d’attenzione sono le relazioni, le emozioni, le identità stereotipate di questi uomini. L’elemento che caratterizza il nostro lavoro è l’interrogazione costante sul rapporto che ognuno di noi ha con la cultura della violenza. La differenza tra la violenza maschile e quella femminile si fonda su una storia millenaria di dominio dell’uomo sulla donna, forse la peggiore che l’umanità abbia mai realizzato, oltre che sui numeri e sulle caratteristiche fisiche. La cultura della violenza altro non è che uno dei volti della cultura del possesso ed essa implica la distruzione dell’oggetto posseduto. La brama di possesso non si limita agli oggetti, anzi trasforma tutto in oggetti, anche le persone, e distrugge qualsiasi possibilità di relazione: il possesso è sempre esclusivo e predatorio. La cultura del possesso si nutre d’invidia, di assenza di reciprocità, si tratta di un potere sterile, annichilente, privo di finalità sociali, tutto chiuso in se stesso. Nelle relazioni affettive violente, la partner diviene un oggetto la cui esistenza è fondamentale per confermare e sostenere un’identità maschile vissuta come fragile e fortemente segnata da tentativi sempre più disperati di soddisfare stereotipi e pretese culturali vissute come personali. Nel momento in cui la partner introduce nella relazione il suo essere soggetto, la sua libertà, l’impossibilità quindi di essere un oggetto e di essere posseduta, questo cambiamento viene vissuto come un tradimento, un’azione predatoria, facendo emergere l’altro aspetto della cultura del possesso, la vendetta e quindi la violenza distruttiva. Gli uomini che agiscono violenza, infatti, si sentono sempre vittime di un tradimento, il tradimento delle regole fondanti la cultura del possesso. Lavorare con gli uomini maltrattanti significa costruire un ponte che ci possa portare dalla cultura del possesso, che trasforma le persone in oggetti generando un potere impotente, a una cultura delle relazioni, dei desideri che nascono quando si accettano i limiti che vengono posti dalla realtà del mondo esterno, di sé e dell’Altro. La cultura del desiderio e del piacere di fare le cose insieme è una cultura che, a guardarla bene, ha molti tratti femminili. Potremmo dire che per anni si è parlato di emancipazione femminile e ora è il momento di parlare di una emancipazione “attraverso” il femminile.

A marzo scorso l’Istat l’ha definito “un fenomeno ampio, diffuso e polimorfo, che incide gravemente sulla quotidianità”. Oltre 4,5 milioni di donne italiane hanno subito maltrattamenti fisici, atti sessuali non voluti, percosse, stupri commessi o tentati, quasi una donna su 4. A 8 milioni è stata inflitta violenza psicologica: svalutazione, sottomissione, minacce, controllo. Gli autori, molto spesso, sono i loro compagni, mariti o ex: uomini maltrattanti.
Se nel resto d’Europa già dagli anni 90 si sperimentavano progetti d’intervento rivolti agli uomini che agivano violenza, in Italia il primo centro nasce solamente nel 2009, il Centro di Ascolto Uomini Maltrattanti di Firenze. Ora esistono in Italia circa 25 centri che si occupano di uomini autori di violenza nelle relazioni affettive, quasi tutti presenti nel Nord, praticamente nessuna esperienza nel Sud Italia. Si tratta ancora di esperienze molto giovani, spesso non finanziate e talvolta osteggiate. Il Centro di Ascolto Uomini Maltrattanti di Roma (CAM Roma), di cui sono responsabile, prende avvio nel 2014: a gestirlo, un piccolo gruppo di psicoterapeuti con una formazione specifica sulla violenza di genere agita dagli uomini. Non solo a Roma, ma in tutto il Lazio, non ci sono esperienze analoghe, mentre la domanda sociale e istituzionale si fa sempre più forte.
In questi anni, però, c’è stato un cambiamento di mentalità e si è compreso che è priva di senso una strategia di contrasto alla violenza sulle donne che non preveda un serio e strutturato intervento rivolto anche agli uomini autori di violenza, in una logica in primo luogo preventiva. Finora il contrasto al fenomeno si è realizzato soprattutto accogliendo e aiutando le donne maltrattate, le quali portano una domanda emergenziale, la cui risposta deve essere immediata. E’ come il soccorso ai terremotati: essenziale, primario, urgente, ma non sufficiente.
Il nostro lavoro con gli uomini autori di violenza, invece, non è mai un intervento di emergenza, ma si poggia sulla prevenzione dell’atto: oggetto d’attenzione sono le relazioni, le emozioni, le identità stereotipate di questi uomini.
L’elemento che caratterizza il nostro lavoro è l’interrogazione costante sul rapporto che ognuno di noi ha con la cultura della violenza. La differenza tra la violenza maschile e quella femminile si fonda su una storia millenaria di dominio dell’uomo sulla donna, forse la peggiore che l’umanità abbia mai realizzato, oltre che sui numeri e sulle caratteristiche fisiche.
La cultura della violenza altro non è che uno dei volti della cultura del possesso ed essa implica la distruzione dell’oggetto posseduto. La brama di possesso non si limita agli oggetti, anzi trasforma tutto in oggetti, anche le persone, e distrugge qualsiasi possibilità di relazione: il possesso è sempre esclusivo e predatorio.
La cultura del possesso si nutre d’invidia, di assenza di reciprocità, si tratta di un potere sterile, annichilente, privo di finalità sociali, tutto chiuso in se stesso. Nelle relazioni affettive violente, la partner diviene un oggetto la cui esistenza è fondamentale per confermare e sostenere un’identità maschile vissuta come fragile e fortemente segnata da tentativi sempre più disperati di soddisfare stereotipi e pretese culturali vissute come personali. Nel momento in cui la partner introduce nella relazione il suo essere soggetto, la sua libertà, l’impossibilità quindi di essere un oggetto e di essere posseduta, questo cambiamento viene vissuto come un tradimento, un’azione predatoria, facendo emergere l’altro aspetto della cultura del possesso, la vendetta e quindi la violenza distruttiva. Gli uomini che agiscono violenza, infatti, si sentono sempre vittime di un tradimento, il tradimento delle regole fondanti la cultura del possesso.
Lavorare con gli uomini maltrattanti significa costruire un ponte che ci possa portare dalla cultura del possesso, che trasforma le persone in oggetti generando un potere impotente, a una cultura delle relazioni, dei desideri che nascono quando si accettano i limiti che vengono posti dalla realtà del mondo esterno, di sé e dell’Altro. La cultura del desiderio e del piacere di fare le cose insieme è una cultura che, a guardarla bene, ha molti tratti femminili. Potremmo dire che per anni si è parlato di emancipazione femminile e ora è il momento di parlare di una emancipazione “attraverso” il femminile.