Quando Albert Camus ricevette il Premio Nobel, ringraziò Simone Weil dicendo: «perché i morti, a volte, sono più vicini a noi dei vivi». Ogni volta che qualcuno mi chiede perché ho passato gli ultimi due anni della mia vita in giro per l’Europa a parlare di Gramsci, io rispondo così. Era il Natale del 2014 quando ho letto per caso alcuni passi dei Quaderni del Carcere, e ho capito che era arrivato il momento di una lettura completa.
Ti conquista subito Gramsci, perché è diretto, radicale, lontano anni luce dal politicamente corretto. Se prendi dei pezzi e li estranei dal contesto, intuisci quanto sia facilmente strumentalizzabile dalla Destra e perché a Sinistra tutti se lo litighino un po’: i comunisti lo reclamano come una loro proprietà storica; i socialisti dicono che no, Gramsci aveva fatto marcia indietro, in fondo lo sanno tutti, e lo racconta pure Pertini; poi ci sono gli anarchici che ti rispondono che, per carità, Gramsci non lo si può iscrivere in nessun partito tantoché c’è quel famoso articolo dove irride i marxisti, “Siamo noi marxisti? Esistono marxisti? Buaggine, tu sola sei immortale”. In America lo studiano all’Università, ma come intellettuale. Se specifichi che è uno dei fondatori del Partito comunista italiano, ti domandano sgomenti Seriously? Are you sure?, perché siccome lo amano anche i repubblicani, non possono rassegnarsi all’idea che l’egemonia sia una categoria pensata per qualcosa d’altro che non sia il libero mercato.
Nessuno è probabilmente più inattuale di Gramsci. Eppure è proprio da questa inattualità, e forse in ragione di essa, che sembra tanto moderno. Adorno scriveva che, nel nostro mondo caratterizzato dalla cultura di massa, il moderno è diventato effettivamente inattuale, specificando che la modernità è una categoria qualitativa e non già cronologica. Forse sarà che tutte le crisi, come tutte le famiglie felici, si somigliano un po’, o forse davvero aveva capacità di veggenza, ma c’è tutto in Gramsci: l’analisi del territorio, la linguistica, la letteratura e il teatro, l’economia e la politica, il giornalismo e la critica degli intellettuali, il problema dell’egemonia e quello delle classi subalterne. Diverse le date e i luoghi, ma tutto scritto e analizzato come si trattasse di oggi. Come se nel nostro Paese nulla fosse mai cambiato. Come se problema, analisi e soluzione fossero lì davanti ai nostri occhi, e a noi restasse solo da chiedersi: “beh, perché non lo facciamo?”. È nato un po’ così questo documentario, un po’ per rabbia, un po’ per amore.
Ero arrabbiata, sì, perché i politici, se vogliono fare i politici, devono conoscere la storia, devono avere coscienza del nucleo culturale da cui provengono, e tanto loro quanto gli intellettuali devono rispondere, non ai giornalisti o agli scrittori famosi, ma a tutti, a me che sono la signorina nessuno e gli suono il campanello perché voglio capire come abbiano fatto a consegnarci un Paese in queste condizioni. Ma poi quei campanelli li ho suonati veramente, e ho appreso che la teoria e la pratica sono due cose differenti, che essere arrabbiati è giusto a patto di non perdere la capacità di ascolto e di rispetto nei confronti degli altri, che i leader a volte fanno cose stupide perché anche loro sono umani, e comunque sì, si può sbagliare anche se si è in buona fede, che i partiti sono costituiti da persone e che è ingenuo e infantile pretendere che il buono e il bello stiano da una parte sola, come nei film della Disney. Ero arrabbiata, ma poi ho incontrato Giuseppe Tamburrano e Gianna Granati, che mi hanno aperto le porte della loro casa raccontandomi tutto ciò che si ricordavano, dettagli su dettagli, pomeriggi su pomeriggi, hanno recuperato per me archivi, foto, documenti.
C’è un punto in cui non c’entrano più la politica o le interviste o le linee di partito, Giuseppe e Gianna erano contenti di avermi a casa loro, prepararmi il tè, venire a passeggiare con me per accertarsi che avessi davvero capito qual era l’intenzione di Nenni o l’atteggiamento di Togliatti in questa occasione o quell’altra. Insieme a me, nei loro racconti, erano di nuovo i giovani che si erano conosciuti e innamorati leggendo le lettere di Gramsci. Ero arrabbiata, e nonostante questo, Giuseppe Vacca mi ha accompagnato al Cimitero Acattolico di Roma e ha risposto a ogni mia domanda, anche a quelle più irriverenti (perché io a differenza sua non sono comunista) con precisione e ironia. Ero arrabbiata ma ho fatto colazione con Juan Carlos Monedero, una mattina a Madrid, e ho imparato che la rabbia va organizzata, e che comunque la più grande lezione di Gramsci è di non perdere mai la fiducia nell’essere umano.
Anche Mirella Delfini era arrabbiata, lei la tessera del Partito comunista l’ha stracciata per davvero, e ha lasciato la politica per occuparsi degli insetti perché «ho pensato che erano più seri loro» mi ha detto. E poi Manolo Monereo, Pepe Gutierrez, Michelangelo Jacobucci, Antonio Scurati, Dimitri Deliolanes, Jacques Bidet, Toni Negri, Stefano Gensini, Alessandra Marchi, Angelo D’Orsi, Fabio Frosini, Guido Liguori e André Tosel, tutti hanno contribuito con il loro pensiero e le loro riflessioni.
C’era un’epoca da documentare e io ne sentivo tutto il peso. Poi Michel, uno dei direttori della fotografia, mi ha detto di smetterla di ossessionarmi con la mia mania di totalità. «Sei una regista, una persona che racconta storie. Scegli qual è la storia che vuoi raccontare». Io volevo raccontare una storia di uomini e di partiti, e spero di averlo fatto restando fedele a quella che è la verità per me. Come scrive J. M. Coetzee: «Gli uomini nuovi dell’Impero sono quelli che credono ai nuovi inizi, ai nuovi capitoli, alle nuove pagine. Io continuo a lottare con la storia antica, sperando che, prima della fine, mi riveli perché pensavo che ne valesse la pena».
L’articolo è stato pubblicato su Left n.16 del 22 aprile 2017.
Il film di Lucia Senesi viene proiettato il 29 novembre, ore 21, alla Casa del cinema di Roma per Riff 2017.