Scappano verso quella che credono sia libertà, l’unica che riescono a vedere oltre il confine grigio del filo spinato, dei soldati con i fucili spianati. Via dalle carceri del regime liberticida e dai lavori forzati a cui sono costretti. Ma corrono anche per lasciarsi dietro fame nera, tubercolosi, malnutrizione e infezioni. O l’epatite B contro cui non esiste vaccino. Corrono e arrivano tutti stremati e sotto peso. E se sbagliano attraversamento, vengono rispediti indietro, tra le fauci del regime di Kim. È quello che è successo a dieci nordcoreani che hanno tentato la fuga oltre confine, che speravano di ottenere lo status di rifugiati una volta su suolo straniero, lasciatisi dietro la patria a inizio novembre.
Non è stato così. Perché il suolo che hanno calpestato è stato quello cinese e lo Stato che li ha accolti in fuga da Pyongyang era quello di Pechino. E le dieci persone che erano riuscite a scappare sono state deportate indietro, anche se tra loro c’era un bambino piccolissimo. Sanno cosa li attende adesso. Perfino il bambino di 4 anni conosce il futuro destino di sua madre: il carcere a vita nella migliore delle ipotesi, nella peggiore e probabile, la morte. Suo padre, Lee, li attendeva in Sud Corea, dove è in esilio, dopo una fuga fortunata nel 2015.
Lee crede che al momento si trovino «in un centro di detenzione. Se passi un mese li dentro diventi incredibilmente fragile, senza mangiare. Manca il cibo. Perdi peso perché non c’è niente da mangiare. Se va bene, ricevi 20 germogli di grano al giorno. Non posso descrivere come mi sento, per me il mondo è un inferno, adesso». Se non ti uccide la volontà del governo, ti ammazza la fame.
Lee ha pregato il presidente cinese Xi Jinping e quello americano Donald Trump di intervenire contro il rimpatrio della sua famiglia che cerca asilo, che però è stata registrata sotto lo status di “disertore”. Insieme agli altri nordcoreani che tentavano di raggiungere il futuro in un altro Paese, la sua famiglia è stata arrestata il 4 novembre, a nord est della Cina, nella provincia di Liaoning. La Cina non ha nemmeno considerato la loro richiesta d’asilo come profughi, li ha trattenuti in un centro di detenzione e ora li ha ritrasferiti in un altro, non più cinese, ma nordcoreano, dove, dice Human Rights Watch, «verranno condannati».
Oltre all’ultimo soldato ferito durante le sua corsa rocambolesca in auto, raggiunto dai proiettili delle divise mentre varcava la dogana della Corea del Sud, negli ultimi tre mesi sono stati 49 i nord coreani che hanno abbandonato, rischiando la vita, il regime di Kim Jong Un. Secondo Human Right Watch, il numero di persone che tentano la fuga è in aumento, rispetto alle 51 persone fuggite nell’ultimo intero anno.
È stato proprio il soldato di 24 anni che ha raggiunto l’altra sponda, dopo che i proiettili del suo stesso esercito lo hanno quasi ucciso, a dare i dettagli a Seul su come si vive in Nord Corea. Durante l’operazione chirurgica, mentre i proiettili venivano estratti dal suo corpo, undici vermi sono stati trovati nel suo stomaco. È così che vive la maggior parte della popolazione nordcoreana, con i parassiti da fame e carenza igienica nello stomaco, in un Paese dove è difficile curare perfino l’epatite, per assenza di vaccini e un terzo dei bambini sotto i cinque anni è gravemente malnutrito.
Phil Robertson, direttore di How, che segue la faccenda del soldato e della famiglia di Lee da vicino, ha detto che facendo tornare indietro l’ultimo gruppo di richiedenti d’asilo «la Cina si rende complice delle torture, dei lavori forzati, incarcerazione e altri abusi che subiranno. Verranno condannati e Pechino si rifiuta di proteggerli, cioè si rifiuta di trattarli e registrarli come rifugiati che scappano dalle persecuzioni».