La riforma del 1992 ha trasformato le Usl in aziende. Poi la deregulation e i tagli alle spese. Tutto ciò ha peggiorato il Sistema sanitario nazionale. Prestando più attenzione ai conti economici che al diritto alla salute dei pazienti. Ma le alternative esistono

La Costituzione parla di diritto all’accesso alle terapie, ma in molte aree del Paese è un diritto difficile da esercitare. Il sistema sanitario pubblico, grande conquista democratica, funziona a macchia di leopardo. Che fare per dare finalmente piena attuazione all’art.32?

«Nella Costituzione non si parla esclusivamente di accesso alle terapie, ma di tutela della salute come diritto fondamentale dell’individuo nell’interesse della collettività, garantendo accesso alle cure a tutti i cittadini», precisa lo psichiatra Andrea Filippi, neo segretario dall’1 dicembre di Fp-Cgil Medici. «Questo è un paradigma di grande valore culturale che – sottolinea Filippi – dobbiamo recuperare: la salute è un bene fondamentale che va protetto per lo sviluppo della persona e della collettività». A ben vedere, aggiunge «la legge di riforma sanitaria 833 del 1978 andava proprio in questa direzione; si costruivano le basi di un sistema sanitario che per prima cosa avrebbe dovuto promuovere e tutelare la salute come bene primario della società: prima la prevenzione su tutto il territorio nazionale e poi accesso alle cure per tutti secondo i principi di “equità”, “universalità” e “solidarietà”. Era un articolato molto ben congeniato e oggi in gran parte disatteso. La crescente preoccupazione della sostenibilità economica del Ssn ha stravolto il senso di quella riforma e la salute da bene primario è diventata una spesa. Con le riforme successive, l’aziendalizzazione e la deregulation, oltre a frammentare il sistema si è scelta la strada di anteporre l’economicismo ai diritti. Oggi è necessario recuperare i progetti, i programmi, ma soprattutto i valori della 883 del 1978.

La salute, fisica e mentale, dei cittadini può essere trattata alla stregua di una merce come prevede l’aziendalizzazione in atto nella sanità?

È proprio questo il problema: con la legge 502 del 1992 e la trasformazione delle Usl in aziende sono stati introdotti meccanismi economico gestionali autonomi con l’unico scopo di amministrare e controllare la spesa sanitaria. In realtà si è prodotta una mercificazione della salute: da una parte le dinamiche concorrenziali proprie del mercato libero hanno mortificato la sanità pubblica a favore di quella privata, dall’altra è stata smarrita la visone d’insieme del sistema. Le aziende oggi ragionano come monadi che pensano solo al budget annuale e di conseguenza al risparmio. Nessuno vede più la salute come un bene su cui investire, si pensa solo a contenere il più possibile la spesa. Bisogna invertire la tendenza, ma per far questo è necessario recuperare l’idea, smarrita, della salute come valore fondamentale e non come merce.

Questo naturalmente è un discorso generale che riguarda anche l’istruzione, la cultura ed il lavoro. La Cgil è in prima linea su questo fronte, per questo il governo Berlusconi prima e Renzi poi, si sono tanto impegnati nel contrastare il lavoro dei sindacati che oggi rappresentano le forze sociali più vitali del Paese.

Quali modelli alternativi proporre?

La promozione della salute e la prevenzione in primis. Con l’aziendalizzazione si è prodotto un sistema sanitario per cosi dire “ospedalocentrico”, le risorse sono concentrate per il 90% sugli ospedali e sulle cronicità a scapito della prevenzione e dell’assistenza sanitaria territoriale, perché da un punto di vista strettamente gestionale, ma se volete anche elettorale, è più impopolare un pronto soccorso che funziona male, di un servizio di prevenzione chiuso. Riqualificare i servizi territoriali, rivedere l’organizzazione della medicina convenzionata, istituire programmi di prevenzione e di promozione della salute, integrare i distretti, i Comuni e le aziende sanitarie, ma soprattutto recuperare il valore delle professionalità del Ssn, ancora oggi tra i primi al mondo per competenza e dedizione. È solo grazie ai professionisti della dirigenza e del comparto che la nostra sanità è ancora tra le prime quindici al mondo nonostante l’inarrestabile definanziamento.

Ci sono già modelli o progetti pilota che funzionano?

Sono quelli messi in campo dalle iniziative proprio dei professionisti con la costituzione di reti di servizi territoriali ospedalieri ed universitari, attraverso i quali vengono coniugate prevenzione, cura e ricerca.

Esistono però modelli che per quanto non appartengano propriamente ai servizi pubblici, potrebbero rappresentare un esempio da mutuare dal nostro Ssn, per la loro offerta libera e realmente democratica: mi riferisco naturalmente ad Emergency che oggi è diffusa anche sul territorio nazionale e a quella esperienza unica nota come Analisi collettiva di Massimo Fagioli che in psichiatria ha saputo coniugare la cura con la formazione e la ricerca. Una sfida per il futuro?