Il suicidio dell'ex comandante croato Praljak che fece distruggere il ponte di Mostar arriva a un mese dalla chiusura del Tribunale penale internazionale istituito dall'Onu nel 1993

E ora, dopo il suicidio dell’ex comandante croato Praljak, si cerca di capire, si rifà la storia. E ritorna quella storia, infinita e tragica, della guerra nella ex Jugoslavia. Ritorna proprio a un mese dalla chiusura del Tribunale penale internazionale dell’Aja per i crimini nella ex Jugoslavia. Ventiquattro anni per indagare e giudicare.

Con i capelli bianchi, il viso rubizzo, si alza in piedi. Il giudice intima: “Stop and sit down”. Si sieda e la smetta. Lui comincia a parlare di se stesso in terza persona: «Slobodan Praljak non è un criminale di guerra. Io rifiuto il giudizio della corte». Lo ha detto in croato. Senza esitare apre la bocca e beve. «Io ho bevuto il veleno». Sono le sue ultime parole. Gli occhi del giudice dell’Aja sono sgranati. Era l’atto finale di un processo durato decenni, con centinaia di testimoni, migliaia di ore di ricerca al tribunale internazionale per i crimini dell’ex Yugoslavia. Non ha vinto la pena della giustizia, la condanna a venti anni di prigione, ma la morte. Il suicidio.

Praljak, l’ex comandante croato della guerra balcanica, si è suicidato davanti agli occhi del giudice Serge Brammertz e del resto del mondo. L’aula della Corte, da culla della giustizia, è improvvisamente diventata una scena del crimine per la polizia e gli investigatori dei Paesi Bassi. “Please, the courtains” dice il giudice. Come a teatro, il sipario che divide l’aula dal pubblico, dove sedevano le vittime e i testimoni, è stato calato, dopo che la fiala di veleno è stata svuotata d’un colpo. Prima della guerra, era questo che faceva Praljak: lo scrittore, il regista, a teatro e per il cinema. Il sangue balcanico e la storia lo hanno reso un generale. Poi un imputato: di pulizia etnica, incitamento all’odio religioso, detenzione.

Nessuno sa ancora come è riuscito ad ottenere l’ampolla di veleno che si è portato alle labbra in un solo gesto convinto del braccio e ha ingoiato in un sorso, in una stanza ad altissima sicurezza. Se l’ha ottenuto lungo il percorso dalla prigione al tribunale, se famiglia, amici, avvocati sono riusciti a farglielo avere, nonostante i controlli della sicurezza durante le ore di visita. Il processo è stato sospeso, il generale è morto a 72 anni nell’ospedale olandese dove non sono riusciti a salvarlo, perché l’effetto del liquido è stato quasi istantaneo.

È il terzo suicidio del tribunale dell’Aja, la terza volta che un prigioniero sotto processo per la guerra degli anni 90 si toglie la vita, ma è la prima volta che un imputato lo fa nella maniera più plateale possibile. Negli ultimi 24 anni sono stati soprattutto i serbi ad ascoltare in cuffia il giudizio della corte, una decina i croati, nessuno delle forze bosniache, nonostante tutti abbiano partecipato, croati compresi, alla pulizia etnica orchestrata da ogni lato, su terra bosniaca quando la disintegrazione dell’utopia di Tito cominciò.

Praljak era entrato nell’esercito croato come volontario, era diventato comandante nel 1991, appena il Paese dichiarò l’indipendenza, per essere spedito a capo delle forze che combattevano in Bosnia. Da quella stessa aula è uscito pochi giorni fa Mladic, tra quegli stessi banchi doveva sedersi Franjo Tudjman, presidente croato, che è morto nel 1999, prima che il tribunale riuscisse ad emettere una sentenza. Durante il lungo assedio di Mostar, una delle città più multietniche dell’ex Yugoslavia, lo scrittore armato è stato una delle figure chiave nella distruzione della città bombardata, la cui caduta fu propagandata in Croazia come una vittoria nazionale. Quando il ponte del XVI secolo andò in pezzi, il simbolo di pietra diventò quello della distruzione di uno Stato intero, mentre i croati imprigionavano diecimila non-croati, soprattutto musulmani, ma anche serbi e rom, per stuprare, torturare e uccidere anche vecchi e bambini.

Il vecchio ponte di Mostar, lo Stari Most, ora è nuovo, riedificato in base allo stesso disegno originale nel 2004, come se gli obici del 1993 non l’avessero mai distrutto. L’ordine di farlo saltare in aria lo diede l’uomo che ha bevuto il veleno all’Aja. Ieri notte per le strade gelate della Croazia la gente marciava con il suo ritratto illuminato dalle candele, come se si trattasse di un martire. Perché la verità, nonostante i vent’anni passati, non è ancora una. Comincia l’ultimo giorno per il tribunale, istituito dalle Nazioni Unite nel 1993. Con 161 atti d’accusa, i giudici hanno sentito più di 5.000 testimoni e emesso 103 condanne, di cui 78 con molto anni di detenzione e 5 ergastoli, ma anche 19 sentenze assolutorie. Il suicidio di Praljak quasi come atto finale, aleggerà sugli ultimi trenta giorni di attività, poi la Corte chiuderà i battenti e il sipario calerà per sempre sulla guerra.